A Milano il registro di genere. Ecco perché è inutile e dannoso

Che Milano, spinta soprattutto dalla sua amministrazione progressista, intenda diventare la capitale arcobaleno d’Italia non è un mistero. Dopotutto, è pur sempre la città che, oltre ad aver ospitato vari gay pride, ha il suo sindaco in Beppe Sala – sì, lo stesso che nel 2019 si fece immortalare mentre sfoggiava lunghe calze arcobaleno – ed è sempre lì, precisamente all’Arco della Pace, che il 28 ottobre scorso, alla notizia del naufragio in Senato del ddl Zan, dei manifestanti si sono radunati al grido di «vergogna» contro la decisione del Parlamento. Dunque è ben noto che aria tiri, culturalmente s’intende, nella metropoli lombarda.

Ciò nonostante, è difficile non accogliere comunque con un certo stupore la recente decisione, da parte del Comune di Milano appunto, di varare un registro per il riconoscimento del genere di elezione dedicato alle persone transgender e non binarie, che consentirà alle persone trans di usare i loro nomi sui documenti comunali, al posto del «deadname», come viene chiamato il nome assegnato alla nascita a una persona transgender.

Tale novità è l’esito dell’approvazione dell’ordine del giorno approvato proposto dalla consigliera del Pd Monica Romano, prima donna transgender eletta a Milano, e – attraverso l’istituendo registro –  consentirà ai transgender meneghini d’impiegare il nome da loro scelto, e cioè l’identità «alias», in tutti i documenti di riconoscimento di competenza del Comune; quindi per l’abbonamento Atm, per le tessere delle biblioteche, per i badge e i documenti di riconoscimento aziendali dei dipendenti del Comune nonché delle aziende partecipate. Manco a dirlo, di «una vittoria storica» ha parlato la citata consigliera Romano «perché si tratta del primo registro di genere istituito in Italia in cui non verranno richieste a queste persone perizie psichiatriche frustranti, ma ci sarà la possibilità di autodeterminarsi».

Ora, quella che viene celebrata come «la possibilità di autodeterminarsi», addirittura in assenza di qualsivoglia valutazione medica, ha un nome ben preciso: si chiama identità di genere. Di più, è proprio quell’identità di genere che si voleva – e ancora si vuole, dato che il testo è stato ripresento tale e quale a Palazzo Madama – introdurre con il ddl Zan, che alla lettera d) dell’articolo 1, la definisce come «i­dentificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corri­spondente al sesso, indipendentemente dal­l’aver concluso un percorso di transizione».

Inutile dire che la decisione di Palazzo Marino crea non pochi problemi. Anzitutto perché sarà difficile possa piacere alla cittadinanza, se pensiamo che – dati statistici alla mano – esattamente un anno fa un sondaggio pubblicato sul quotidiano La Stampa metteva in luce come la scelta del sesso a prescindere da quello di nascita, cioè con una semplice e rapida autodichiarazione, convinca appena il 20% dei cittadini italiani, con quasi il 70% (68, per la precisione) che se ne dichiara convintamente contrario.

Non è finita, siccome il nuovo registro di Milano, riconoscendo l’identità di genere come «la possibilità di autodeterminarsi» nel genere, solleva criticità pure giuridiche. Lo dimostra una lettura della sentenza 180/2017 della Corte costituzionale, spesso citata a sproposito dal mondo arcobaleno. Con quel verdetto, infatti, è vero che la Consulta riconosceva, a proposito d’identità di genere, che per ottenere la rettificazione del sesso non è obbligatorio il compiuto intervento chirurgico demolitorio dei caratteri sessuali anatomici primari, ma richiamava altri due elementi fondamentali

La prima è, citiamo testualmente, «la necessità di un accertamento rigoroso non solo della serietà e univocità dell’intento ma anche dell’intervenuta oggettiva transizione dell’identità di genere», la seconda è l’esclusione «che il solo elemento volontaristico possa rivestire prioritario o esclusivo rilievo ai fini dell’accertamento della transizione». Peccato che «il solo elemento volontaristico» sia precisamente l’identità di genere come la definisce il ddl Zan – e come la riconosce il nuovo registro approvato a Milano. Dove, se quell’atto amministrativo dovesse essere impugnato, un giudice potrebbe aver qualcosa da ridire; gli estremi, infatti, sembrano esserci. Così come la connotazione ideologica di tale iniziativa.

https://www.provitaefamiglia.it/blog/a-milano-il-registro-di-genere-ecco-perche-e-inutile-e-dannoso

Ti è piaciuto l'articolo? Sostienici con un "Mi Piace" qui sotto nella nostra pagina Facebook