Aiutare con empatia e accoglienza

Ci sono idee, pensieri ed argomenti nella vita che finché non se ne fa diretta esperienza mal si accordano con una reale comprensione dei fatti. Ed allora capita, che magari, in un reparto oncologico dove è costante il riferimento soggettivo e oggettivo alla morte, alle paure della sofferenza, l’operatore può apparire freddo e distaccato. Allo stesso modo in cui un operatore sanitario cerca di razionalizzare una diagnosi infausta. Di fronte a certe esperienze ci chiudiamo a riccio e mettiamo in atto meccanismi di difesa psicologica atti a superare una esperienza altrimenti conflittuale. Lo psicoanalista S. Freud ci ha edotto circa i meccanismi di difesa; dalla rimozione allo spostamento, dalla razionalizzazione alla negazione, dalla introiezione alla scissione e così via Freud, A. L’Io e i meccanismi di difesa. Firenze: Martinelli 1967. Quando si mettono in atto i meccanismi di difesa che è una sorta di protezione verso se stessi, naturalmente non vi po’ essere empatia che richiede, all’opposto capacità di entrare nel mondo dell’altro senza essere troppo coinvolti ma partecipi. Senza empatia puoi suggerire ad una persona qualsiasi cosa o comportamento, ma se non lo accompagni con quella sorta di empatia il suggerimento diventa sterile e spesso non seguito. In psicologia, con empatia ci si riferisce alla capacità di porsi in maniera immediata, autentica e sincera nello stato d’animo o nella situazione di un’altra persona.  E finché non sentiamo quella piccola scossa empatica verso la sofferenza, il disagio, la tragedia dell’altro proseguiremo sempre per la nostra strada e spesso le parole diventano solo rumore di fondo in chi magari sta soffrendo o deve prendere una decisione importante di vita. Non puoi aiutare nessuno se si scorpora la natura umana in corpo, psiche e anima. L’uomo, a mio avviso, è uno e trino, riprendendo la tradizione cristiana. L’unità dell’uomo, non può trovarsi solo nella dimensione biologica o psicologica ma deve essere cercata anche nella dimensione noetica (spirituale) che vede l’uomo come essere orientato all’esterno, all’alto, ai valori, ai significati della vita. Per cui quando ci si trova di fronte al vissuto della morte, della finitudine di vita, in quella che lo psichiatra Vicktor Frankl ha chiamato la tragica triade dell’esistenza, sofferenza, morte, colpa è necessario fare appello alla dimensione più alta dell’esistenza il nous che Frankl definisce possibilità umana di fare appello alla «forza di resistenza dello Spirito» (Frankl, Logoterapia e Analisi Esistenziale, Morcelliana 2000). La «forza di resistenza dello Spirito» non è un impulso o un bisogno né un istinto è una forza spontanea, naturale e presente in ogni individuo, indipendentemente dalla tragica situazione di vita; è una possibilità caratterizzata dalla libertà intenzionale, di dare sempre un valore e un senso alla propria situazione. Molto spesso le persone e soprattutto molti operatori sanitari lo dimenticano cercando di razionalizzare ogni disagio o sofferenza. Spesso al malato inguaribile e ai propri familiari si propone solo la consolazione del controllo del dolore lasciando scoperta il significato della sofferenza per la vita vissuta. Ma sono sicuro, che sedendo accanto e insieme ai familiari del morente, con empatia e li si lascia esprimere tutto quanto si ha ancora da dire è possibile attivare quello stato di coscienza più elevato: la resistenza dello spirito.

Di sicuro, e da studi scientifici acclarati, un aiuto autentico risente di un clima di accoglienza, caldo ed empatico e spiritualmente propositivo, perché c’è sempre una parola che dà senso al tutto (Riccardi. P., Parole che trasformano, psicoterapia dal vangelo. Ed. Cittadella 2014)

Pasquale Riccardi

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