Ancora macerie dal terremoto Un fallimento del centralismo

A un anno dal sisma, su 3827 “casette” promesse agli abitanti rimasti senza tetto nei 51 comuni appenninici del Centro Italia colpiti dai terremoti dell’estate 2016, ne risultano consegnate soltanto 534. E di queste un buon numero sono di qualità scadente.

Se invece di fare grandi appalti statali si fosse dato un credito entro un certo limite massimo a ogni famiglia senzatetto da spendere con regolari fatture nell’acquisto, nel montaggio e negli allacciamenti di una “casetta”, tutte le 3827 “casette” sarebbero erette ed abitate nell’arco di pochi mesi dal sisma. Nell’Unione Europea di abitazioni prefabbricate se ne producono e se ne commerciano ovunque, dalla Finlandia al Portogallo, dall’Irlanda alla Romania. Un moderno mercato comune di oltre 500 milioni di abitanti è perfettamente in grado di rispondere in breve tempo anche a una domanda straordinaria del genere.

Puntare innanzitutto il dito contro la disonestà dei fornitori e l’inefficienza dei burocrati sarebbe pertanto sostanzialmente un errore. Eventuali disonestà ed inefficienze possono di certo avere la loro parte, ma la causa principale del fallimento sta più a monte: sta nel modello dell’intervento, che è sbagliato alla radice. Gli attuali clamorosi ritardi e disservizi non hanno perciò nulla di sorprendente: non sono altro che la matematica conseguenza di un processo di ricostruzione sbagliato. E siamo ancora soltanto nella fase degli alloggi provvisori. Figuriamoci poi che cosa potrà succedere o non succedere nella fase della costruzione degli alloggi definitivi.

Nei giorni dell’emergenza si era parlato molto del “modello Friuli”, ossia della rapida ed efficace  ricostruzione delle aree dell’alto Friuli colpite dai due terremoti del 1976, ma poi ci si è guardati bene dall’applicarlo. Si è fatto anzi esattamente il contrario. Proviamo allora a riassumere qui gli elementi caratteristici di tale modello, che ricordiamo bene anche perché ne facemmo diretta esperienza (e demmo anche qualche piccolo contributo alla sua definizione). Molto tempo si è già perduto, ma anche se lo si cominciasse ad applicare adesso a molti ritardi si potrebbe ancora porre qualche rimedio.

Il primo elemento è la chiara distinzione tra la fase dell’emergenza, che implica un intervento dall’esterno di tipo “militare”, dalla successiva fase della ricostruzione, che è tanto più efficiente, rapida e  adeguata quanto più il processo viene messo nelle mani dei comuni terremotati e dei loto abitanti. Nelle zone colpite dai terremoti dell’anno scorso si sta invece procrastinando sine die la fase dell’emergenza lasciando un po’ tutto nelle mani della Protezione Civile con l’infondata speranza che così si possa fare ogni cosa presto e bene.

Il secondo elemento del modello Friuli, cui abbiamo già accennato, fu il riconoscimento ai terremotati del loro diritto e dovere di farsi direttamente carico del processo di ricostruzione delle case perdute o della riparazione delle case danneggiate.

Il terzo elemento fu il totale decentramento a livello comunale delle pratiche di finanziamento della ricostruzione. I lavori venivano finanziati con contributi che erogava il sindaco del comune, il quale in forza di un’apposita legge era pro tempore dirigente regionale a ciò delegato. Egli attingeva a tal fine a un fondo a sua disposizione periodicamente rifinanziato dalla Regione, che agiva anche su delega dello Stato. Tutta la pratica iniziava e finiva a livello comunale. Grazie a ciò la prima e fondamentale garanzia del buon uso del fondo e della rapidità dell’erogazione dei contributi non era il controllo giudiziario bensì il controllo sociale.

Le istituzioni (Comuni e Regione) esercitarono funzioni di controllo sia tecnico che finanziario, e ripararono le infrastrutture e il proprio patrimonio edilizio, ma non gestirono la ricostruzione delle case private. Aggiungiamo infine che il riconoscimento ai senzatetto del loro diritto e dovere di provvedere da sé alla ricostruzione o riparazione della propria casa contribuì anche fortemente a rilanciare l’economia locale. In un caso del genere infatti i fornitori naturali del servizio sono in primo luogo professionisti e piccole e medie imprese del posto, e non grandi imprese con buone relazioni a Roma.

di Robi Ronza | Lanuovabq.it

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