Basta!

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11-foto_12Nell’odierna «società della prestazione» è necessario riuscire a dire e a vivere dei «basta», intesi come utili pause nelle quali riflettere su ciò che siamo e che saremo.

Basta. Nemmeno gridato, anzi. Un sussurro. Basta. Nel mezzo del frastuono dell’ansia da prestazione, della rabbiosa violenta e subdola lotta per l’affermazione di sé e soltanto sé. Tra i vortici del presenzialismo, dei partiti-del-fare che mai sono stati così efficienti nel distruggere e nel dilaniare. Basta.

Può un «basta» essere parola resiliente?

C’è chi la chiama «società della prestazione», quella in cui siamo scivolati costruendo un mondo migliore, e con quest’analisi interagisce la mia riflessione. Una società scintillante, tutta positività, brillantezza e Grande Bellezza. Una società che affronta il conflitto banalizzandolo, trasformandolo in moda, in trend, in qualcosa di talmente presente, ripetuto e quotidiano da non scandalizzare più. Dacci oggi il nostro omicidio quotidiano, la nostra autopsia in prima serata. Dacci di trasformare l’«altro» – che suona aggressivo – in «diverso» – che è molto più politicamente corretto e buonista, meno estraneo e quindi inoffensivo: l’estraneo cede il passo all’esotico, visitato dal turista, scrive lapidario Byung-Chul Han. Fine del conflitto. Il filosofo Jean Baudrillard parla della «violenza del dolce sterminio, una violenza genetica e comunicazionale, una violenza del consenso… una violenza virale nel senso che non opera frontalmente ma per contiguità, per contagio, per reazione a catena», alla velocità media di un qualunque social network.

La resilienza, nel mondo contemporaneo, scivola fin troppo spesso nella banalizzazione, nel qualunquismo. Ma essere persone resilienti non significa «farsi piacere» le situazioni. Non significa portar pazienza. Il falso consolatore che dice alla donna vittima di violenza «abbi pazienza, perdona, sarai felice nel Regno di Dio perché il Signore è con le vittime» è un millantatore della Parola della grazia. La pratica della resilienza non è «càlati giunco, che passa la piena», come dice il proverbio siciliano. A dire che, come tante canne di acquitrino, la nostra vocazione sta nel piegare il collo quando passa la corrente, per poi risollevarlo a intemperie terminata.

La società della prestazione sbandiera il «verbo modale positivo» per eccellenza: poter fare. Al singolare, ma anche al plurale. Yes, we can. La narrativa insegna che ogni tragedia nasce dal fraintendimento: «Tu puoi farlo», «Noi possiamo farlo». Quello che era nato come rivendicazione legittima dell’esistenza, del diritto, dell’autodeterminazione, scivola inesorabilmente nella violenza, nel branco, nel parossismo: tutto è possibile, e di conseguenza nessuna azione ha più valore.

E allora sì che «basta» è resiliente. Allora sì, chi si ferma è salvato.

Peccato: come al solito, nel pianeta Occidente i primi ad accorgersi di questa dinamica e a cavalcarla sono mercanti. Ed ecco il fiorire di wellness center, beauty farm, spa. Con buona pace per chi ancora pensa che «spa» (termine che indica tutte quelle aziende che offrono servizi di ogni genere riguardanti la cura del corpo, ndr) stia per «società per azioni». La cosa importante, che nessuno vuol perdersi, è quell’angoletto di paradiso accessibile: una bella manicure, due ore in una sauna, un bel fine settimana tra sport, performance e scintillii di vita sana. O la crociera, per sentirsi personaggi da film. Posso fare ogni cosa, devo fare ogni cosa. E quando mi si chiede «come stai», devo produrre un elenco il più lungo possibile di cose fatte, la check-list più nutrita e varia del mio giro di amici iperattivi e iperimpegnati. Sto bene solo se ho fatto un sacco di cose molto sane, molto «in», molto da performance. Sto bene se non mi annoio. Se sono attivo, presente, su quanti più fronti possibili: lo si chiama multitasking, ed è il segnale che la persona è (convinta di essere) sana. Le malattie della società della prestazione? Tutte psichiche, guarda caso. Nevrosi, burn out, disturbi dell’attenzione, deliri di onnipotenza.

Ecco allora la necessità di riuscire a dire e a vivere un «basta» che ci faccia seriamente bene. La discriminante sta nella distinzione radicale tra «distrarsi» e «dissociarsi». Tra il break (perché «pausa» non suona abbastanza bene) e l’interruzione. Il «basta» della resilienza è il non-fare, loshabbat, la ricerca della contemplazione, dello sguardo che ricomincia a vedere. È il «basta» di chi si rende conto che l’aumento costante e mai finito, mai soddisfatto, di prestazione provoca «l’infarto dell’anima», il «basta» detto nel momento in cui realizziamo che «vivere» significa ben altro rispetto a ciò che stiamo facendo – o piuttosto di ciò che lasciamo che ci accada – e ci convertiamo, una volta ancora. In questo senso, resilienza non è solo quella capacità di resistenza alla distruzione, ma anche di costruzione di un’esistenza e di un futuro. Solo scegliendo di riappropriarsi degli spazi della stanchezza, del riposo, della contemplazione, le persone credenti – singolarmente e in quanto chiese – possono sperare non di sopravvivere portando pazienza, ma di vivere e di dar senso alla loro vita e alla loro testimonianza.

Come insegna la musica: senza le pause i suoni non si trasmettono come si deve, e la melodia intera ne è penalizzata. Friedrich Nietzsche (Umano, troppo umano) diceva: gli uomini attivi rotolano, come rotola la pietra, in conformità alla brutalità della meccanica.

C’è un tempo per ogni cosa sotto il cielo: nel nostro tempo, riuscire a trovare il modo e il coraggio di fermarci, di riflettere su ciò che siamo diventati e su ciò che possiamo ancora diventare significa non ridurci alla meccanica e compiere un gesto che ci aiuta a resistere alla distruzione.

Elisabetta Ribet

(19 marzo 2014)

Fonte: http://www.riforma.it/

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