Ben Hur. O della malaugurata idea di fare i film con «un messaggio»

ben-hur-2016-bighe-huston-kebbellNon solo la sfida a un kolossal da 11 Oscar. Il quarto remake del romanzo di Wallace vuole portare al cinema anche un po’ di morale. Ipotesi sulle ragioni di un flop.

Il nuovo adattamento cinematografico di Ben Hur, il quarto in poco più di un secolo, è stato annunciato in partenza da Hollywood con l’intento esplicito di portare un «messaggio cristiano più forte» dei precedenti. Bene. Ora che è atterrato nelle sale italiane (è al cinema dal 29 settembre), diciamo che l’intento si vede, la forza molto meno.

La storia, da sinossi, più o meno è sempre quella, ispirata al romanzo di Lewis “Lew” Wallace: il principe ebreo Giuda Ben Hur (Jack Huston) si ritrova ridotto in ceppi con la madre e la sorella per colpa dell’amico romano traditore Messala (Toby Kebbell); condannato alla pena del remo nelle galee dell’impero, ritorna a casa dopo anni in cerca di vendetta, ma nella Giudea dell’epoca si aggira un uomo di nome Gesù (Rodrigo Santoro), e l’incontro con lui cambierà l’odio di Giuda in perdono. Come la versione più famosa, quella del 1959 con Charlton Heston, il film è stato girato tra Matera e Roma, ma rispetto al capolavoro di Wyler manca un’oretta e il taglio non è indolore. Il confronto è impari e però è obbligatorio quando si sfida un kolossal da undici premi Oscar che a quasi sessant’anni di età dice ancora la sua.

Il tentativo di infilare disperatamente un sacco di cose in due ore e mezza è, appunto, disperato. I rapporti tra i personaggi si appiattiscono (Giuda, per dire, si innamora di Esther e la sposa in tre minuti) e il racconto si riempie di ellissi. Che forse non sarebbero nemmeno tanto fastidiose, se solo questa non fosse la storia più famosa dell’universo. Quinto Arrio, il console romano che veniva salvato da Ben Hur dalla galea in affondamento e per questo gli restituiva la libertà e per giunta lo adottava, qui praticamente sparisce, o forse addirittura viene accoppato proprio da Ben Hur, non si capisce bene nel parapiglia della battaglia in 3D. Si capisce invece che mamma e sorella del protagonista guariscono per miracolo dalla lebbra, ma sono loro a non capire perché, visto che Gesù non lo incontrano mai.

Ci sono anche differenze e stranezze – diciamo così – inserite non per sanare le ferite inferte dalle forbici della produzione, ma per scelta deliberata. Pronti via e sullo schermo compare l’anno 33, dopo di che succedono alcuni fatti importanti tipo, tra l’altro, i cinque anni di schiavitù di Giuda, e infine si arriva all’uccisione di Cristo, quando ormai dovrebbe essere come minimo il 38. Messala e Ben Hur sono fratelli adottivi e non semplici amici di infanzia (forse un modo per sbarazzarsi delle allusioni omoerotiche che Gore Vidal sosteneva di avere disseminato nella sceneggiatura del film di Wyler, insinuano i recensori maliziosi). Ilderim, l’irresistibile sceicco arabo che metteva il principe giudeo sulla biga per affrontare l’infame romano, non è più uno sceicco e non è neanche arabo ma l’africano Morgan Freeman, che si prende più spazio del suo antenato da Oscar Hugh Griffith e un po’ oscura il resto di un cast già parecchio provato dal confronto col passato.

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E poi c’è il «messaggio». Il produttore Mark Burnett e il produttore esecutivo Roma Downey, marito e moglie, professionisti cristianissimi specializzati in film e sceneggiati a tema religioso, hanno scommesso su questo. Con un trucco: «Se dicessimo ai giovani americani secolarizzati che stiamo facendo un film sull’amore e il perdono cristiani, non verrebbero a vederlo», ragionavano con la stampa prima dell’uscita in America. «Ma se diciamo loro che abbiamo fatto un film d’azione emozionante con grandi star, verranno e saranno esposti al messaggio lo stesso».

I buonissimi e i cattivissimi
E così si comincia a capire qual è il guaio di questo film. Nella versione con Charlton Heston Gesù non parlava mai. Dio e l’imperatore si contendevano i destini degli uomini e della storia, ma era una battaglia epica, non una lezione morale. Adesso il «messaggio» è affidato a un Messia presenzialista che sbuca ogni tanto facendo cose poco pertinenti e regalando predichette stucchevoli. La versione in anteprima non era doppiata, e chissà come sarà tradotto in italiano il primo incontro tra Ben Hur e Gesù, quando quest’ultimo, disturbando un dialogo del principe ebreo con la moglie, raccomanda: «Amate i vostri nemici». E Giuda, ironico: «Oh, that’s very progressive!».

Soprattutto, la didascalizzazione della vicenda finisce per appiattire l’umanità in un mondo dove da una parte ci sono i cattivi in purezza, i romani, sadici conquistatori assetati di sangue a cui piace «guardare gli altri soffrire», annientatori di popoli «solo perché sono diversi», avidi individui capaci di «qualunque cosa per il giusto prezzo»; e dall’altra ci sono i buoni e i più buoni, con i quali si è schierato Gesù, che sono ovviamente afflitti dai romani. Apice di questa semplificazione, la scena in cui Cristo salva un lebbroso dalla lapidazione e mentre si prende le sassate al posto suo spiega a tutti che «l’amore è la nostra natura». Ponzio Pilato osserva in disparte e individua in quell’uomo ultrabuono un nemico «più pericoloso degli zeloti». Seguirà crocefissione.

Rodrigo Santoro plays Jesus in Ben-Hur from Paramount Pictures and Metro-Goldwyn-Mayer Pictures.

Spiace fare i pedanti con un film che ha almeno il merito di voler diffondere un «messaggio» positivo. Ma se questa produzione costata 100 milioni di dollari è avviata verso una mostruosa perdita globale di 120 milioni, un motivo c’è e non è certo il boicottaggio di Hollywood. È che alla terza volta che Ben Hur si sente dire «devi avere fede», il pubblico in sala sbuffa. Alla decima sbuffa anche Tempi. Mentre la materia da «film d’azione emozionante» (i remake della mitica corsa delle bighe e della battaglia navale, dove il regista kazako Timur Bekmambetov finalmente può sfogare la sua indole Hardocore!) non aiuta ad alleggerire, piuttosto fa a schiaffoni con le interruzioni edificanti.

Maledetta buona intenzione
Probabilmente ha ragione il critico di Entertainment Weekly quando dice che Ben Hur 2016 è «un segno del suo tempo». Come ha spiegato un paio di anni fa ad Avvenire Barbara Nicolosi, insegnante di cinema nelle università e sceneggiatrice americana, per nove anni religiosa delle Figlie di San Paolo, «il limite della cinematografia dei cristiani è che troppo spesso è semplicemente brutta». Cercando goffamente di colpire l’attenzione di un pubblico “giovane e secolarizzato” si è «sacrificata alla sciatteria e al culto del banale». Tutti tesi a «essere gentili e non-offensivi» i cristiani del cinema finiscono spesso per risultare «banali», «stoppini bagnati», non dicono «nulla che valga la pena di stare a sentire». Perché «dove c’è una “buona intenzione” la storia generalmente fallisce». Una conferma? La Passione di Cristo, che è un filmone perché non è un «film per la Chiesa». Mel Gibson «ha fatto piuttosto un atto di penitenza per i propri peccati».

Su Ben Hur, un rovesciamento della prospettiva lo suggerisce indirettamente proprio Lew Wallace, autore nel 1880 del fortunatissimo romanzo originale, rimasto per una trentina d’anni e più in testa alla classifica dei best-seller americani, secondo solo alla Bibbia, ancora oggi uno dei libri più letti di sempre. Perché mai Wallace ha scritto questo “racconto di Cristo”? Non aveva un messaggio da trasmettere, semplicemente voleva sapere.

Jack Huston plays Judah Ben-Hur, James Cosmo plays Quintus and Dato Bakhtadze plays Hortator in Ben-Hur from Paramount Pictures and Metro-Goldwyn-Mayer Pictures.

Tutto cominciò una sera del 1876, su un treno diretto a un raduno di veterani della guerra di secessione americana. Wallace era stato un generale nordista, e quella sera sul treno fu avvicinato da Robert Ingersoll, un suo ex compagno d’armi che nel frattempo era diventato l’ateo militante più importante d’America, secondo la rivista Slate «un oratore rinomato che girava il paese sfidando l’ortodossia religiosa e perorando la causa della separazione tra Stato e Chiesa». Insomma i due cominciarono a parlare dell’esistenza di Dio, della divinità di Cristo, del paradiso e di altre simili facezie. Il tema della conversazione lo aveva scelto Wallace, ma Ingersoll dovette sembrare al suo confronto una slavina di idee. Finita la chiacchierata, scriverà nel 1893 su The Youths’ Companion l’ex generale unionista ormai famoso, «un senso della importanza del tema mi colpì per la prima volta con una forza unica e insieme persistente. La mia ignoranza la sentivo dolorosamente come una macchia di tenebra più buia nelle tenebre. Mi vergognavo di me». Wallace sentì «la mortificazione dell’orgoglio», una imprevista «punizione dello spirito» che sfociò «nella risoluzione a studiare l’intera materia, fosse stato anche per la sola gratificazione di raggiungere una convinzione da una parte o dall’altra». Quell’uomo doveva sapere tutto.

Ma come rispettare l’enorme proposito senza morire sui libri? Scartato lo studio della teologia (un «pozzo» senza fondo pieno di «ossa di speculazioni sterili»), esclusi sermoni e commentari («al solo pensiero ero sopraffatto dall’idea della brevità della vita»), Wallace decise di partire dalla storia. «Avrei letto la Bibbia e i quattro vangeli». E per non farsi sconfiggere dall’aridità delle parole scritte, iniziò a scrivere lui stesso, in modo da «mantenermi interessato».

Toby Kebbell plays Messala Severus and Jack Huston plays Judah Ben-Hur in Ben-Hur from Paramount Pictures and Metro-Goldwyn-Mayer Pictures.

Points of wonder
Per quattro anni l’ex militare riempì ogni ritaglio di tempo libero di studio, lettura, scrittura. Compulsò libri, testimonianze, mappe geografiche le più dettagliate disponibili. «Scrivevo sempre con una carta davanti ai miei occhi». Delle ore che Wallace dedicava alla sua opera, le più se le mangiavano «ricerca e indagine».

Oltre alla storia dell’incontro con Ingersoll, però, esiste anche un’altra versione della storia della nascita di Ben Hur. O meglio un altro possibile incipit, precedente e complementare, che in parte aiuta a spiegare il motivo di quell’improvviso assalto di vergogna. È raccontato sempre da Wallace nell’articolo del 1893. Fin da piccolo il generale si era impresso nella mente una vicenda molto particolare, «poche righe» contenute nel Vangelo di Matteo. «Com’erano semplici! Ma analizzatele, e guardate quanti elementi di meraviglia!». Una stella che parla. Un viaggio durato anni che termina in una stalla davanti a un bambino uguale a tutti gli altri. Quegli uomini saggi venuti da chissà dove che invece di mettersi a ridere si prostrano ad adorarlo. Già nel 1875 Wallace aveva cominciato a scrivere la storia romanzata dei Magi, la stessa che poi confluirà nei primi capitoli di Ben Hur. Quegli «elementi di meraviglia» erano per lui uno stimolo non meno impellente della conversazione con Ingersoll. Wallace li chiamava proprio così, «points of wonder». Non aveva un messaggio da trasmettere. Solo uno stupore da assecondare.

Sul cammello con Baldassarre
«All’epoca, per parlare francamente, io non ero minimamente influenzato da alcun sentimento religioso. Non avevo convinzioni su Dio o su Cristo. Nemmeno ci credevo, né non ci credevo. (…) Eppure quando l’opera era iniziata da un po’, mi ritrovai a scrivere con reverenza, e spesso con soggezione». Insomma Wallace si stava «inconsciamente preparando a liberarmi della mia indifferenza con una farfalla si libera del suo involucro». Cos’era successo? Nell’articolo non è mai scritto esplicitamente. C’è però un indizio. «Come tutti gli scrittori», Wallace i suoi personaggi li vedeva, li sentiva, ci parlava, li conosceva. Alcuni li disprezzava, altri li aveva accolti in famiglia. «A volte Ben Hur o Simonide o Baldassarre o lo sceicco Ilderim il Generoso mi chiamavano imperiosi», e lui «per placarli» doveva interrompere tutto e mettersi a scrivere. Erano «sostanzialmente persone vive». Wallace ha attraversato il deserto «con Baldassarre sul suo cammello bianco» verso l’incontro con gli altri Magi. Si è svegliato con i pastori all’annuncio dell’angelo nel cuore di «quella limpida e frizzante prima notte di Natale». Ha azzardato «uno sguardo furtivo al volto di quella moglie ragazzina sul dorso dell’asino, lei che sarebbe stata chiamata la Madre di Dio». Ha «vagato con Ben Hur nel bosco di Dafne». Chiuso nella stanza segreta dove terminò il romanzo, «ho contemplato la Crocefissione, e ho combattuto per scrivere ciò che ho contemplato». Si chiama immedesimazione, quasi una categoria teologica da contrapporre alla suggestione intellettuale.

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Finalmente in Giudea
Prima che finisse di scrivere il suo capolavoro, anzi proprio scrivendo, Wallace divenne «un credente in Dio e in Cristo». Anni dopo, quando era già un autore di successo, poté finalmente visitare Gerusalemme e la Giudea. Fu il quinto non musulmano, dopo l’imperatore d’Austria e il principe del Galles e i suoi due figli, a ricevere dal sultano il pieno accesso a quei luoghi. Wallace volle percorrere di persona le strade battute dal «mio eroe» Ben Hur. Osservò sassi, strade, edifici, ogni dettaglio. «Non ho trovato neanche un motivo per fare una sola modifica al testo».

Se il quarto Ben Hur un merito ce l’ha, è di averci fatto venire voglia di leggere un grande libro.

Pietro Piccinini | Tempi.it

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