Il cambiamento climatico – sostiene l’etico Dominic Roser – è il più grosso problema di ridistribuzione della storia dell’umanità e richiede soluzioni completamente nuove .
L’esperto di etica Dominic Roser indaga le questioni morali sollevate dal cambiamento climatico. Le sue conclusioni non infondono coraggio: il problema oltrepassa le facoltà umane.Molte persone non ne possono più di sentire l’espressione “cambiamento climatico”, tanto è complesso il problema. Anche a lei, signor Roser, capita di averne abbastanza della discussione sul clima?
Mi occupo del cambiamento climatico da dieci anni e lo trovo un problema enormemente interessante. Ma capisco coloro che non ne vogliono più sentir parlare. Riguarda però il quotidiano di tutti. Quasi ogni nostra attività provoca emissioni. Allo stesso tempo i problemi a esso collegati sono estremamente astratti e difficili. Il nostro cervello non sembra fatto per risolverli.
In che senso il cambiamento climatico è un problema morale?
È una questione di giustizia sociale. Il cambiamento climatico è il più grosso problema di ridistribuzione della storia dell’umanità e richiede soluzioni completamente nuove. Non possiamo semplicemente usare al riguardo le soluzioni etiche degli ultimi 3.000 anni della storia dell’umanità.
Che cosa differenzia il cambiamento climatico dai “normali” problemi etici?
Se attraverso in bicicletta il campo prossimo al raccolto di un contadino per arrivare a casa prima, tutti sanno che è moralmente sbagliato. Se invece prendo l’auto e utilizzo la strada sembrano non esserci problemi di ordine morale. Eppure l’auto produce emissioni che, sommate alle emissioni di altre auto, decenni dopo e dall’altra parte del mondo provocheranno danni ai raccolti dei contadini.
Come mai la nostra etica tradizionale non è adatta alla soluzione di problemi del genere?
Il nostro cervello e l’etica tradizionale non sono adeguati per pensare a decenni da ora nel futuro e per assumersi una responsabilità globale. Pensiamo a breve termine di tempo e di distanza. In genere parliamo infatti di amore per il prossimo, che ci è vicino, e non per chi è distante.
Valutato a breve termine e a breve distanza il cambiamento climatico non costituisce quindi un problema?
Abbiamo difficoltà a riconoscerne l’intera portata morale. Una dimensione che salta subito all’occhio è: fino a che punto l’umanità può aggredire la natura? Segue la dimensione: l’oggi contro il futuro. Che cosa possiamo lasciare ai nostri figli? Alla dimensione globale, invece, viene prestata ancora troppa poca attenzione: Nord-Sud. In parole povere: il Nord produce la maggiore quantità di emissioni, le quali però saranno all’origine di danni climatici soprattutto al Sud.
Mutazioni climatiche ci sono sempre state.
Sicuro. Sono naturali e non devono essere considerate qualcosa di negativo. Il problema è che il riscaldamento degli ultimi decenni procede troppo rapidamente e ciò avrà presumibilmente conseguenze negative per l’umanità: siccità, inondazioni, povertà, emigrazione.
Ci sono ricercatori che contestano la causa umana di questi cambiamenti climatici.
A questo riguardo i media offrono un’immagine distorta. Continuano a dare l’impressione, che sia ancora in corso un serio dibattito sulle cause umane o meno del cambiamento climatico. Attualmente oltre il 97% dei ricercatori ritiene che il cambiamento climatico sia creato dall’uomo. Personalmente non ho mai incontrato un ricercatore che appartenga al restante tre per cento. In ogni caso è di gran lunga più interessante domandarsi: qual è la dimensione del cambiamento?
Nemmeno su questo voi ricercatori siete concordi.
Salirebbe su un aeroplano di cui il dieci per cento dei meccanici dice che probabilmente precipiterà? Penso proprio di no. Perché allora pretendiamo dalla scienza climatica che tutte le previsioni concordino? La domanda è: quanto vogliamo rischiare? C’è una piccola probabilità che tutto vada bene. C’è una grande probabilità che il cambiamento climatico crei problemi seri. C’è una piccola probabilità che abbia luogo la grande catastrofe. Penso che non dovremmo correre nemmeno quest’ultimo piccolo rischio e agire di conseguenza.
Perché i politici tollerano non solo il rischio minore ma anche quello maggiore? Le conferenze politiche sul clima falliscono quasi sempre.
Ogni soluzione costa. L’umanità non ha ancora mai avuto un problema tale da doversi coordinare a livello globale. Sorgono allora domande sulla correttezza.
Per esempio?
Che fare se l’Europa si attiene agli obiettivi di tutela del clima e gli USA invece no? Dobbiamo attenerci ugualmente agli accordi? Dobbiamo addirittura migliorarli, dal momento che gli USA non collaborano? O possiamo infrangerli anche noi, visto che nemmeno gli altri fanno qualcosa?
E qual è la sua risposta?
Una risposta classica dell’etica è: bisogna fare ciò che è giusto, indipendentemente da ciò che fanno gli altri. In questo caso direi persino: dovremmo andare oltre su questo punto. Se l’Europa non fa progressi non sono soltanto gli USA a subirne le conseguenze, ma soprattutto i Paesi del Sud, quelli che più soffrono a causa della nostra inerzia.
Riducendo le emissioni i Paesi del Nord mettono però a rischio la crescita economica su cui si basa il loro benessere.
È una questione che si sopravvaluta. Per risolvere il problema del clima non dobbiamo mica ritornare all’età della pietra. Secondo gli studi si tratta di rallentare leggermente la crescita del benessere, non certo di ridurlo. Vorrei tuttavia aggiungere che questo discorso non vale per le persone povere. Le persone povere hanno bisogno di benessere ed è per questo che producono anche emissioni.
Un esempio: vivo in una casa ben isolata e non possiedo un’automobile. Il vicino ha due automobili e nel fine settimana vola a Londra per fare shopping. Mi capisce se mi perdo d’animo e per le prossime ferie decido di salire anch’io su un aereo?
Sì. Ma le azioni individuali hanno realmente un’efficacia, anche le mie. Uno studioso ha cercato di chiarire le cose. Ha valutato che le emissioni di uno statunitense medio potrebbero essere responsabili in futuro della sofferenza o della morte di una o due persone.
La sua risposta non infonde affatto coraggio…
Il mio ruolo è duplice. Mi occupo di etica del clima e analizzo la reale difficoltà di questa situazione. Ci sono tutti i motivi per essere pessimisti, quasi mai si era presentato un problema di così ardua soluzione. Allo stesso tempo è infinitamente più importante che ci motiviamo reciprocamente a risolvere il problema. Magari possiamo rinunciare all’auto di quando in quando. E, cosa molto più importante, possiamo mobilitarci per risolvere il problema a livello politico.
Resta però la coscienza sporca, che è sempre un pessimo motivatore.
Al riguardo la penso diversamente. Quando compare una cattiva coscienza è opportuno parlarne. Dobbiamo nominarla obiettivamente e non distorcere i fatti. Non sono un teologo, ma la religione cristiana non conosce la prospettiva secondo la quale è possibile guardare negli occhi il proprio comportamento sbagliato? Secondo la quale dobbiamo convivere con la nostra colpa e ciononostante non siamo perduti? Non dover portare la colpa da soli può essere liberatorio e al tempo stesso può motivarci ad agire.
Allora la teologia può mostrare modi per recuperare la capacità di agire?
Il mondo secolare non è abituato all’idea che il nostro quotidiano possa essere oppresso dalla colpa. La mia doccia calda al mattino causa violazioni dei diritti umani? Il quotidiano sembra all’improvviso infettato di assassinio? Ma non può essere! Il cristianesimo ha invece sempre affermato che le persone devono avere familiarità con le proprie imperfezioni. Possiamo riconoscerle, esserne liberati e cercare di buon animo di mutare la nostra condotta verso il bene. (intervista a cura di Reinhard Kramm e Felix Reich, reformiert.)
Dominic Roser – Scheda
Dominic Roser ha studiato economia politica, filosofia e scienze politiche a Berna. È stato attivo come dottorando e ricercatore post-doc nelle Università di Zurigo e di Graz. Per la sua tesi di dottorato “Ethical Perspectives on Climate Policy and Climate Economics” ha ricevuto nel 2011 il SIAF Award. Attualmente lavora come Research Fellow a un progetto sui diritti umani per le generazioni future presso l’Università di Oxford.