La transizione di genere, oltre ad essere una battaglia ideologica, è indubbiamente parte anche di un’agenda politica; segnatamente, quella progressista. Lo si nota, a livello internazionale, nell’attività in favore dell’identità fluida da parte delle formazioni politiche che si definiscono democratiche: dagli Stati Uniti alla Scozia passando per la nostra Italia, tanto per fare alcuni dei tantissimi esempi che si potrebbero fare.
Negli Usa, infatti, l’ormai praticamente ex presidente Joe Biden e la sua vice (sconfitta da Donald Trump) Kamala Harris, hanno promosso per anni i pronomi no-binary e una politica tutta improntata sui “diritti” Lgbtqia+. Basti pensare che dopo la debacle di Harris alle elezioni dello scorso 5 novembre alcuni commentatori politici hanno imputato al Partito Democratico di essere diventato “il partito delle drag queen e non più degli operai”. In Scozia, invece, il Parlamento ha di recente varato il Gender recognition reform bill, che stabilisce che le persone sopra i 16 anni (e non più 18, come prima) possano presentare richiesta per un certificato ufficiale che attesti il genere in cui si riconoscono sulla base di una mera autocertificazione. E arriviamo poi alla nostra Italia, dove la politica ha spinto – e spesso continua a farlo – il gender nelle scuole e in ogni ambito della società (pensiamo al Ddl Zan o alle varie mozioni comunali sull’Alias nella pubblica amministrazione) e dove il responsabile diritti della segreteria nazionale del Partito Democratico, ovvero Alessandro Zan, definisce «l’identità di genere un diritto fondamentale».
Tutte queste novità vengono introdotte e promosse, a livello internazionale, senza preoccuparsi troppo delle conseguenze – in particolare sui giovanissimi – che l’antropologia fluida può provocare, ma semplicemente adeguandosi di volta in volta a quelle che sono le rivendicazioni politiche del momento della comunità Lgbt. La parola d’ordine è sempre una: «diritti». Poco, anzi nulla importa se dietro i «diritti» si celino istanze che possono fare il bene della persona oppure, al contrario, cagionarne conseguenze anche drammatiche. Ciò che conta, tanto per la comunità arcobaleno quanto per le formazioni politiche che con essa devotamente interagiscono – quasi si trattasse delle rivendicazioni di una fetta importante di popolazione, e non già d’una minoranza molto determinata, se non militarizzata – è semplicemente tradurre in legge nuovi «diritti».
Per capire come ciò possa tradursi a livello normativo, in leggi o proposte di legge, basta semplicemente prestare attenzione all’«identità di genere». Sì, perché era l’«identità di genere» il fondamento dell’affossato ddl Zan contro l’omotransfobia, un provvedimento che con il pretesto del contrasto alle discriminazioni voleva introdurre nel nostro ordinamento il concetto, chiaramente ideologico e insidioso, di «identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione» (art. 1, comma 1, lettera d). Ancora, è l’«identità di genere» – rinominata come identità alias – il pilastro della pericolosa carriera alias, un profilo alternativo e temporaneo, riservato agli studenti (e in alcuni casi pure ai docenti e al personale) che non si riconoscono nel genere «assegnato alla nascita» – come oggi si usa dire con riferimento al sesso biologico.
Beninteso: come specifici sondaggi hanno rilevato, l’«identità di genere» è un’idea bocciata dagli italiani, il 56% dei quali si definisce contrario alla sua introduzione nel nostro ordinamento. Va detto anche che l’«identità di genere» non è un tema solo italiano. Basti vedere cosa avviene in Germania dov’è stato deciso che le persone trans e non binarie possano seguire una procedura più semplice e veloce per richiedere il cambio di nome. Lo stesso sito dell’Unione europea, segnala che «alcuni Paesi» europei consentono oggi di «modificare l’identità sessuale sui documenti ufficiali (certificati di nascita, passaporti, carte d’identità…) tramite una semplice dichiarazione. Alcuni Paesi consentono di farlo online».
Non casualmente, le stesse formazioni che promuovono l’«identità di genere» sono pure quelle che spingono per destrutturare la famiglia e aprire a pratiche aberranti. Ciò avviene, in Italia, con il Partito Democratico che – oltre a spingere per l’«identità di genere» – promuove con convinzione i matrimoni egualitari (e lamenta la loro mancata approvazione in Italia), è possibilista sull’utero in affitto (la segretaria Elly Schlein si è «detta personalmente favorevole» a tale pratica), e appoggia l’idea di trascrivere i certificati di nascita emessi all’estero, se a chiedere la genitorialità sono coppie dello stesso sesso (o anche etero) che abbiano fatto ricorso alla maternità surrogata fuori dai confini nazionali, e le adozioni per i single.
Il paradosso è che tutto questo viene promosso mentre a livello internazionale è in atto un forte ripensamento.
Qualche esempio? Il caso più clamoroso è senza dubbio quello inglese. Nel Regno Unito, infatti, quest’anno sono state varate delle nuove linee guida del servizio sanitario britannico (Nhs), che in estrema sintesi dicono una cosa semplice, e cioè che – salvo rarissime eccezioni – si nasce maschi o femmine. Insomma, i sessi sono due. Apparentemente ovvia, tale affermazione non lo è. Infatti non più tardi di tre anni fa le linee guida Nhs avevano stabilito che un paziente trans dovesse essere indirizzato in reparti single-sex, intendendo tuttavia per sex «quello nel quale ci si identifica». Ora, invece, si chiarisce invece che quando si dice «sex» si intende «biological sex».
Questa svolta – arrivata dopo numerosi scandali, a partire da quelli della clinica Tavistock – è stata definita storica dagli stessi media britannici; il punto è che questa svolta interessa anche altri Paesi. A partire da quelli scandinavi che, dopo Svezia e Finlandia e Danimarca, nel marzo dello scorso anno hanno visto anche la Norvegia opporsi fermamente alla “terapia affermativa di genere”.
E in Italia? La politica che fa? Per ora si è arrivati all’apertura di un lavoro istruttorio e comune del Ministero della Salute e del Ministero della Famiglia – promosso dai ministri Orazio Schillaci ed Eugenia Roccella – sulla problematica della disforia di genere dei minori, a partire dall’utilizzo della Triptorelina, il farmaco bloccante della pubertà. E c’è da sperare che testimonianze toccanti come quella di Luka Hein, la detransitioner invitata nel nostro Paese da ProVita & Famiglia lo scorso ottobre, possano accelerare l’adeguamento, da parte appunto dell’Italia, del ripensamento internazionale in atto sul tema della transizione di genere tra i minori. Ne va del bene dei più deboli e indifesi della società: i bambini.
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