Da Gaza al Libano, tentativi di tregua. A Riyadh alleanza rilancia soluzione a due Stati

Il nuovo capo di Hezbollah non esclude trattative, ma avverte: serviranno “settimane o mesi”. Il premier libanese ad interim Mikati mostra maggiore ottimismo e attende sviluppi dalla missione di Hochstein in Israele. Ma restano le voci critiche su entrambi i fronti. Intanto la capitale saudita ospita la due giorni della “Alleanza internazionale per l’applicazione della soluzione a due Stati”.

Beirut (AsiaNews) – Dal Medio oriente, e in particolare da Beirut, arrivano i primi – seppur timidi – spiragli per una tregua che possa mettere fine, anche per un periodo di tempo limitato, alla spirale di guerra e violenze in attesa di colloqui di pace più duraturi. Per ora solo parole, in attesa di sviluppi concreti mentre da Gaza i vertici di Hamas respingono la proposta di una “breve” interruzione nei combattimenti. Intanto, in queste ore si muove anche la diplomazia saudita – finora rimasta a lungo dietro le quinte dei conflitti che stanno martoriando la regione – con Riyadh che ospita il primo incontro della cosiddetta “alleanza internazionale” favorevole allo Stato palestinese. Un’occasione per confermare la condanna del “genocidio” in atto a Gaza, dove ancora oggi si contano oltre 30 morti; e per ribadire, rispondendo alle parole del premier israeliano Benjamin Netanyahu, che i legami con lo Stato ebraico nel novero degli “Accordi di Abramo” sono possibili solo dopo l’applicazione della soluzione a due Stati.

In queste ore ha parlato il nuovo leader di Hezbollah Naim Qassem, subentrato alla guida del “Partito di Dio” libanese dopo la morte dello storico capo Hassan Nasrallah, dicendosi disponibile a trattare un accordo con Israele per il cessate il fuoco. Nell’intervista con il quotidiano libanese Ad-Diyar, rilanciata dall’israeliano Haaretz, il leader del movimento sciita ha però avvertito che per finalizzare l’intesa potrebbero servire “settimane o mesi” e non è previsto “un rapido cambiamento sul campo” pur a fronte di una intensificazione dell’attività diplomatica. Intanto proseguono le violenze, e i morti: un attacco sferrato oggi da Hezbollah alla comunità di confine israeliana di Metula ha ucciso cinque persone, tra cui un agricoltore israeliano e quattro lavoratori stranieri.

Secondo alcune fonti Hezbollah potrebbe ritirare le proprie truppe a nord del fiume Litani, instaurando una zona cuscinetto verso il confine con Israele trasferendo al contempo il carico di armi e “scollegando” la propria battaglia col conflitto a Gaza. L’obiettivo a breve termine è instaurare una tregua di tre giorni con una proposta da consegnare nei prossimi giorni, con l’inviato speciale Usa Amos Hochstein – che domani sarà in Israele – che, incontrando il premier libanese Najib Mikati, avrebbe prospettato un’apertura nelle posizioni di Netanyahu.

Restano però su entrambi i fronti delle posizioni di chiusura e di contrarietà alle trattative o, quantomeno, alle concessioni al fronte opposto. Il presidente del Parlamento libanese, lo sciita Nabih Berri, esclude qualsiasi cambiamento alla Risoluzione 1701 delle Nazioni Unite definendo “fuori questione” una modifica dei termini dell’accordo “anche solo di una parola”. Parole che non inducono all’ottimismo giungono anche da Moshe Davidovich, capo del Consiglio regionale di Mateh Asher e presidente del forum della “Linea di confronto”, che interpellato sui colloqui diplomatici afferma: “Non interferisco con le considerazioni militari dell’Idf [esercito israeliano] ma, a livello politico, la vera minaccia per i nostri residenti non è stata rimossa! Vi è un fuoco missilistico anticarro diretto sulle comunità di confine, e sta ancora accadendo”.

Un clima di maggiore fiducia si respira invece dalle parti dell’ufficio del primo ministro libanese e lo stesso Mikati si dice “fiducioso” sulla possibile tregua con Israele. Rivelando il contenuto di un colloquio con Hochstein, il premier ad interim ha ipotizzato un cessate il fuoco prima delle elezioni presidenziali statunitensi in programma il 5 novembre. “Stiamo facendo del nostro meglio… per avere un cessate il fuoco entro le prossime ore o giorni” ha spiegato Mikati, che si dice “cautamente ottimista” sulle prospettive di tregua. La proposta prevede un cessate il fuoco iniziale da attuare in 60 giorni, in cui l’esercito libanese si schiera al confine e confisca le armi di Hezbollah nel sud. Di contro, l’esercito israeliano si impegna a ritirare le truppe oltre-confine entro sette giorni, col sostegno delle forze libanesi – almeno 10mila – stanziate alla frontiera. A conclusione del periodo, Israele e Libano dovrebbero promuovere negoziati indiretti mediati dagli Stati Uniti sulla piena attuazione della risoluzione 1701 appianando tutte le controversie alle frontiere.

Se dal “fronte nord” arrivano segnali di apertura, a Gaza continua a prevalere la logica della guerra e delle violenze. In queste ore Hamas comunica di respingere la proposta di una tregua temporanea per la Striscia, secondo le parole pronunciate dall’alto responsabile Taher al-Nounou, all’Afp. Il leader dei miliziani ricorda che “abbiamo già espresso la nostra posizione sull’idea di una tregua temporanea della guerra, che non serve ad altro che a riprendere l’aggressione in un secondo momento”. Egli ha infine ribadito la necessità di una “fine permanente, e non temporanea, della guerra” oltre al ritiro dei soldati israeliani [che ogni giorno devono aggiornare la conta dei morti, saliti quasi a 400 dall’inizio della guerra] dall’enclave palestinese. Parole che spengono le flebili speranze di una interruzione del conflitto, al centro di un incontro in queste ore fra il presidente egiziano Abdel Fatah al-Sisi, fra i mediatori più attivi, e il capo della Cia William Burns alla presenza del nuovo numero uno dell’intelligence del Cairo Hassan Rashad.

Infine, ieri a Riyadh si è tenuto il primo incontro di una nuova “alleanza internazionale” che intende sostenere la causa palestinese finalizzata alla creazione di uno Stato indipendente accanto a quello israeliano nella prospettiva della soluzione a due Stati. Emersa il mese scorso a margine dell’assemblea generale Onu, il gruppo ribattezzato “Alleanza internazionale per l’applicazione della soluzione a due Stati” riunisce nazioni del Medio oriente, dell’Europa e di altre aree con l’obiettivo di una pace – e una soluzione – duratura. Il ministro saudita degli Esteri, principe Faisal bin Farhan, ha dichiarato che quasi 90 “Stati e organizzazioni internazionali” partecipano alla due giorni nella capitale. A Gaza, avverte, “è in atto un genocidio [termine che Israele respinge con sdegno] con l’obiettivo di sfrattare il popolo palestinese dalla sua terra, cosa che l’Arabia Saudita rifiuta”. Il capo della diplomazia di Riyadh definisce “catastrofica” la situazione umanitaria e denuncia il “blocco totale” nel nord della Striscia. A settembre, il sovrano de facto del regno, il principe ereditario Mohammed bin Salman, ha affermato che uno “Stato palestinese indipendente” è condizione per la normalizzazione, posizione ribadita ieri dal principe Faisal.

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