L’Europa manda i cacciabombardieri a colpire i miliziani dello Stato Islamico ma poi ne finanzia i miliziani pagando loro sussidi di disoccupazione mentre si trovano in Siria a combattere il jihad. Il paradosso, l’ennesimo di un Occidente che dice di combattere il terrorismo islamico senza però volersi impegnare a contrastare l’estremismo che lo genera, è tornato fragorosamente a venire a galla nella tollerante e politicamente corretta Danimarca dove i servizi d’intelligence hanno rivelato che 28 “volontari” jihadisti partiti per combattere fra le fila dello Stato Islamico in Siria ricevono il sussidio da disoccupati dal welfare di Copenhagen, uno ei più ricchi d’Europa nei confronti degli immigrati.
Dei 28 danesi identificati dalla Pet (Politiets Efterretningstjeneste, l’agenzia per la sicurezza interna) a 15 è stato imposto di restituire il denaro intascato abusivamente, otto sono ancora sotto inchiesta e per cinque il fascicolo è stato archiviato per insufficienza di prove, secondo quanto reso noto dal tabloid Bt.
“E’ estremamente importante non essere ingenui” ha commentato il ministro della Giustizia, Mette Frederiksen. La Danimarca vanta uno dei sistemi di sussidio ai disoccupati più generosi del mondo e versa fino a 801 corone al giorno (108 euro) anche se sembra che alcuni dei jihadisti beneficiassero di una somma più modesta. La Danimarca ha, proporzionalmente al numero di abitanti, il secondo più alto numero di combattenti stranieri in Siria, dopo il Belgio. Secondo Pet “oltre 100” danesi hanno lasciato il Paese per andare a combattere in Siria, un numero altissimo (che secondo alcuni osservatori è ulteriormente aumentato negli ultimi tempi), se si considera che la Nazione ha poco più di 5,6 milioni di abitanti.
Basti pensare che la Gran Bretagna (62 milioni di abitanti) valuta che i cittadini con il passaporto di Sua Maestà che combattono con l’IS siano circa 500 mentre dalla Germania (83,5 milioni di abitanti) avrebbero raggiunto la Siria almeno 550 jihadisti. Dei foreign Fighters danesi oltre il 25% incassava, fino a ieri, sussidi di disoccupazione fino a 3 mila euro al mese da Copenhagen il cui governo in ottobre ha inviato 7 cacciabombardieri F-16 con 250 militari in Giordania e Iraq per partecipare alle operazioni militari della Coalizione contro il Califfato con un bilancio finora di 74 missioni aeree effettuate e 60 bombe sganciate.
Curiosamente, la Danimarca è anche uno dei Paesi da dove sarebbero partiti più volontari anche per combattere al fianco dei curdi contro lo Stato Islamico. In questo caso si tratterebbe per lo più di immigrati curdi o di cittadini danesi autoctoni appartenenti a gruppi di “bikers” organizzatisi con altri club motociclistici britannici e tedeschi.
La notizia dei terroristi sovvenzionati dallo Stato danese va contestualizzata in un ambito che vede tutti Paesi europei impegnati a scovare i miliziani, quelli partiti per la guerra santa e quelli rientrati dopo aver combattuto per l’IS, con ogni probabilità con l’obiettivo di colpire gli stessi Paesi di cui hanno acquisito la cittadinanza o dove sono residenti.
Sul fronte della repressione l’ultima notizia battuta dalle agenzie riporta di una gigantesca retata effettuata da centinaia di agenti austriaci sotto la regia della Procura di Graz presso moschee e altri luoghi di preghiera a Vienna, Graz e Linz per smantellare una rete di reclutamento e propaganda gestita da un bosniaco che finora avrebbe reclutato e inviato in Siria 150 volontari. Dati che, se confermati, farebbero balzare l’Austria, che ha 8,5 milioni di abitanti, tra le prime posizioni nella classifica dei foreign fighters” guidata da Belgio e Danimarca. Secondo il Ministero degli Interni di Vienna dei 150 combattenti la metà sono ceceni, 60 sono tornati in Austria e 30 sarebbero morti in guerra sui fronti iracheno e siriano.
Notizie che dovrebbero imporre una seria riflessione sulle politiche di immigrazione adottate dagli Stati europei e sulla assurda tolleranza dimostrata nei confronti della propaganda islamista diffusa presso moschee, centri di cultura islamica e attraverso la rete e i social network. Una riflessione che non dovrebbe risparmiare le fallimentari strategie buoniste adottate dalle società europee nei confronti di un Islam sempre protagonista quando si tratta di terrorismo, violazioni dei diritti umani civili, dei valori e delle leggi in vigore in Occidente. Per comprendere l’inadeguatezza con cui combattiamo in Europa questi fenomeni vale la pena restare in Danimarca dove a inizio settembre la moschea di Aarhus dichiarò apertamente il suo sostegno al Califfato senza di fatto subirne alcune conseguenza. Anzi.
L’aspetto più patetico e al tempo stesso comico della “strategia” di Copenhagen per sanare la piaga jihadista l’ha ben illustrata il 21 ottobre il reporter Fausto Biloslavo su Il Giornale. I miliziani del Califfato rientrati ad Aarhus sono stati accolti dalle autorità danesi non con il carcere a vita per terrorismo ma bensì con un bel programma di recupero sociale, quasi fossero tossicodipendenti o alcolizzati.
“Gli apriamo le braccia quando tornano a casa. Diversamente dall’Inghilterra, dove possono venir internati per una settimana, noi gli chiediamo: hai bisogno di aiuto?” ha spiegato candidamente Steffen Nielsen, consigliere per la prevenzione del crimine. Il programma di riabilitazione dei jihadisti prevede “di non strapparli dal loro credo nella guerra santa. Sono i benvenuti a sognare il Califfato, ma devono sapere che c’è un codice penale da rispettare”. Come se per un taglia-teste abituato a saccheggiare, sterminare civili e prigionieri e violentare bambine in nome di Allah il termine “codice penale” potesse avere un senso.
Di fronte a simili atteggiamenti non c’è da stupirsi che un qaedista reduce da una brigata del Fronte al-Nusra appena rientrato dal fronte siriano abbia accettato di farsi pagare dall’amministrazione comunale di Aarhus le tasse scolastiche per un corso di laurea in ingegneria. Per lui probabilmente si tratta di un interessante corso di formazione che, quando tornerà al jihad, gli consentirà di piazzare con maggiore perizia le bombe necessarie a far saltare in aria ponti ed edifici. Per venire incontro agli assistenti sociali danesi, il jihadista ha condannato a parole le decapitazioni degli ostaggi occidentali ma al Washington Post ha ammesso che “le esecuzioni sommarie di soldati iracheni e siriani sono giuste”, alla faccia della Convenzione di Ginevra.
Il programma di recupero danese è così innovativo, racconta Biloslavo, “che ancora prima del rientro a casa, psicologi e funzionari di polizia favoriscono i collegamenti via Skype fra le famiglie e i giovani combattenti in Siria, come se fossero pazienti da curare con tutte le attenzioni”. Il buonismo danese che potemmo definire suicida o “jihad-friendly”, oltre al trattamento psicologico prevede di curare i volontari dello Stato Islamico anche dalle ferite subite in guerra.
Quanto alla moschea amica del Califfato, invece di chiuderla o raderla al suolo come fanno i jet danesi con i covi dello Stato Islamico in Iraq, il comune di Aarhus ha invitato gli imam che si riconoscono in Abu Bakr al-Baghdadi a negoziare. I risultati non sono certo entusiasmanti. A fronte di una condanna (timida e dichiarata solo alle autorità danesi) delle decapitazioni dei cittadini occidentali, nella moschea di Aarhus si continua ad appoggiare apertamente il Califfato condannando il governo danese per avere inviato truppe e aerei nella Coalizione.
di Gianandrea Gaiani
Fonte: http://www.lanuovabq.it/
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