Droni, confessione di un ex pilota americano

670x448xHELLFIRE.jpg.pagespeed.ic.ZHj6y_KubPPiù di 6 mila ore di volo, centinaia di missioni e un gelido attestato da bravo striker: 1.626 nemici uccisi in battaglia.
L’aviazione avrebbe voluto trattenerlo. Per incentivarlo, gli offriva un bonus da 109 mila dollari. Ma dopo quasi sei anni di manovre al joystic e la nausea fissa allo stomaco Brandon Bryant ha detto di no.
Non era un problema di fuso orario. Tra il 2007 e il 2012, Brandon non si è mai alzato in volo per l’Iraq o l’Afghanistan, ma ha guidato decine di droni da anonimi container del New Mexico e del Nevada.
UNA GUERRA SPORCA. Pentito è pentito, altrimenti l’uomo sarebbe rimasto a fare il top gun a distanza, anziché andare a raccontare al mondo come si uccidono in silenzio presunti terroristi di al Qaeda e, per errore, anche donne e bambini.
Il soldato Bryant non è un buono, né sembra eccessivamente turbato dalle sue storie. Spiega che gli Stati Uniti hanno il dovere di colpire i bersagli mirati: «Sono uomini malvagi, è bene eliminarli».
Ma il punto è che i suoi capi spacciano le missioni come «lavori puliti». «La verità, invece», ammette Brandon, «è che niente è pulito».
In un tono piatto, quasi anestetizzato, ricorda la sua prima guida di un veicolo senza pilota (Uav), nell’inverno del 2007, pochi giorni dopo il suo 21esimo compleanno.

Strike come nei videogame e sangue in formato pixel: la guerra sembra un gioco

Brandon Bryant in divisa da top gun. Ma le sue missioni erano a distanza. Brandon Bryant in divisa da top gun. Ma le sue missioni erano a distanza.

Nell’oscurità e nel silenzio della notte, il pilota osservava tre uomini afghani scendere lungo un sentiero. Gli avevano detto che si trattava di sospetti insurgent e che portavano fucili sulle spalle, ma per quel che riusciva a vedere lui erano solo bastoni da pastori.
Brandon ingrandì ancora un po’ lo zoom ed eseguì l’ordine. Sullo schermo esplose un fuoco di pixel, poi osservò il fumo in 3d del suo missile Hellfire. Pochi minuti dopo, la nube si dissolse e, attorno a un cratere, apparirono i brandelli dei corpi dei due accompagnatori. L’altro afghano – il target principale – aveva perso una gamba.
Il sangue gli scorreva a fiotti dal ginocchio. Passò del tempo prima che l’uomo morisse e il pilota di droni lo osservò tra lo choccato e l’esterrefatto: «Le immagini erano così punteggiate, non sembravano per niente reali. Ma lo erano».
LE GUERRE CLANDESTINE. Quando gli chiedono perché abbia deciso di parlare, l’ex top gun risponde sempre che gli americani devono sapere.
Negli Stati Uniti, due terzi dell’opinione pubblica è favorevole alle guerre a distanza, che non creano disturbo quando uccidono civili. Il presidente Barack Obama ha annunciato di limitarne l’uso, ma il business dei droni è in piena espansione: 82 miliardi di dollari investiti entro il 2025, per oltre 100 mila nuovi posti di lavoro.
Oltre alle operazioni militari in Iraq e in Afghanistan, gli Usa conducono guerre clandestine in Yemen, Pakistan e Somalia, compiendo centinaia di strike l’anno.
Ma il soldato Bryant dubita che i cittadini siano davvero consapevoli di quel che accade. Lui stesso, racconta, all’inizio non si era reso del tutto conto delle conseguenze delle sue azioni. «Il nostro training era più immaginario che reale».
MORTI DA COMPUTER. Certo, veniva detto che il loro lavoro «era uccidere persone e distruggere cose». Ma gli istruttori, continua Brandon, insistevano molto sul «fattore videogame».
«Non siamo degli eroi. Seduto al computer, non senti il missile esplodere, vedi la scena e ascolti solo uno strano ronzio», continua l’ex pilota, «i ragazzi sul campo sono molto più coraggiosi di me».
Gli effetti psicologici delle uccisioni a distanza sono più lenti e striscianti, ma ci sono: «Per chi lavora con i droni, è sempre un brutto colpo. Prima o poi si realizza che si sta “giocando” con vite reali, la guerra non è un videogame».

Missili contro bambini e pastori: gli effetti «collaterali»

L'ex pilota dei droni americano Brandon Bryant, in un'intervista a Usa Today.a sinistra L’ex pilota dei droni americano Brandon Bryant, in un’intervista a Usa Today.

Come a tanti reduci di guerra, anche a Brandon i medici hanno diagnosticato un disturbo da stress post-traumatico.
Tra gli ex compagni, c’è chi si scola intere bottiglie di whisky dopo aver messo a segno uno strike. Dopo la prima operazione, una ragazza del suo vecchio squadrone si è «rifiutata di sganciare altri missili, a costo di finire davanti a una corte marziale». «Se non esci, poi», aggiunge, «non ti puoi sfogare. Gli psicologi militari vogliono che niente trapeli».
STRESS DA OMICIDI MIRATI. In uno studio del 2011, un’equipe medica dell’aviazione Usa rilevò che, su 600combat dei droni, il 42% presentava «livelli di stress tra l’alto e il moderato» e il 20% era «esaurito ed emozionalmente spossato».
Anche la coscienza di Brandon, 28 anni il gennaio prossimo, è malata. Per curarla, a lui “piace” sempre raccontare anche un’altra storia. Di quando un giorno, poche settimane dopo il suo battesimo da pilota, gli fu commissionato dai servizi segreti uno strike contro un target molto importante. Forse un capo talebano o un comandante di al Qaeda.
IL BAMBINO POLVERIZZATO. L’uomo si trovava in una delle tipiche case afghane in mattoni d’argilla. Identificato il bersaglio, il pilota ingrandì l’immagine con lo zoom e nell’angolo vide «correre una figura, un piccolo essere umano dalle sembianze di un bambino».
Esplosa la bomba del Predator, «nella casa non c’era più nessuno». «Tranquillo, era solo un cane», esclamò il suo superiore.

FONTE

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