Quando vedremo le sale d’attesa dei medici o negli ospedali piene come al solito, ma tra i tanti volti non ci sarà più nemmeno un paziente; uomini, donne, anziani, giovani, poveri e facoltosi, sarà perchè tutti saranno accomunati dal medesimo provvedimento: cancellati per ordini superiori. Avrà provveduto a farlo il prossimo codice di deontologia medica dove si annuncia che la parola “paziente” sarà abolita e sostituita dall’espressione “persona assistita”. Il presidente della Federazione degli Ordini dei Medici, nonché senatore in quota Pd, dice che il provvedimento servirà a rendere evidente il «diritto a ricevere cure e assistenza senza passività» e «ad essere al centro del sistema». C’è il rammarico di avere atteso così a lungo prima che una tale trovata degna del miglior monsieur de la Palice vedesse la luce. Bastava così poco e chilometriche liste di attesa per visite ed esami si sarebbero disciolte come neve al sole se allo sportello, al posto del paziente, si fosse presentata «la persona assistita», finalmente divenuta attivo centro del sistema.
Al di là di certa amara ironia l’abolizione del termine «paziente» ha delle implicazioni non indifferenti. Per comprenderlo ci si deve domandare: chi è il paziente? Non è colui che deve attendere senza lamentarsi l’arrivo del medico o il giungere della sperata guarigione, egli è il sofferente (pàtior in latino, paskho in greco). Eliminare il termine è un obiettivo di lunga data di quel vasto e trasversale fronte consumeristico volto a ridurre la relazione medico-paziente ad una transazione contrattuale uguale a tutte le altre. Ci hanno provato in passato ideando l’espressione “cittadino utente”, un Minotauro lessicale adottato da taluni zelanti funzionari sanitari frutto della crasi tra il furore sanculotto e la rassegnazione da municipalizzata. Il distacco con la nobiltà e la storia del termine “paziente” era troppo evidente.
Ora ci riprovano con “persona assistita”, termine che fa scomparire una dimensione essenziale: la realtà della sofferenza. In tanti ambiti le persone hanno bisogno di assistenza, ci rivolgiamo al legale per l’assistenza giuridica, all’interprete per l’assistenza linguistica, in molti ambiti siamo e rimaniamo persone quando cerchiamo forme diverse di assistenza. Ma è la sofferenza e la malattia che spingono la persona a cercare aiuto in un’altra persona in cui si pone una tale fiducia da essere disposti ad abbattere le naturali barriere di pudore e riservatezza. È questa una cosa che non si è disposti a fare con nessun altro. Sì, abbondano le trasmissioni televisive dedicate alla medicina, gli articoli sulle riviste, c’è Internet, ma quasi sempre il paziente non riesce ad interpretare le informazioni e così accade che si rivolga al medico perché quello che aveva letto su Wikipedia lo aveva fatto morire dallo spavento.
La rimozione della parola paziente sarà anche frutto di quella mentalità funzionalistica che vede nella persona malata un essere di minore valore, una mentalità che non crede nel valore ontologico di ciascun essere umano indipendentemente dalla sua condizione. Da qui si procede ad escogitare un florilegio di litoti: non vedente, non udente, diversamente abile e via col liscio. Non che ci preoccupi l’uso del termine persona in sé, ma in un’epoca in cui si vuole affermare che non tutti gli esseri umani sono persone, che la dignità di persone è legato al possesso di certi attributi, che se si è nella condizione di embrione, di feto, di neonato, se si soffre di Alzheimer, sindrome di Down, stato vegetativo non si è persone, allora drizzare le antenne diventa doveroso.
Davanti al paziente, di fronte al sofferente, è difficile sostenere che la risposta debba consistere nella soddisfazione dei desideri, perché se c’è un paziente, allora c’è anche un medico, una persona che avendo la necessaria conoscenza cura, come indica il doppio significato della radice avestica della parola (madh). È perché è anch’egli un essere umano che il medico è pari al paziente in dignità e però svolge un ruolo ben specifico: difendere l’integrità del paziente in scienza e coscienza, disposto a rompere l’alleanza terapeutica, pur di difendere la propria integrità di uomo e di medico. Per simmetria alla scomparsa del paziente dovrà giocoforza corrispondere la scomparsa della specificità delle singole figure professionali, risucchiate nell’indistinto calderone delle “persone assistenti”. Si legge sui giornali che i medici ne hanno discusso per mesi e che la decisione è stata unanime. Sarà così, ma quel che so è che di un dibattito di tale importanza per tutti i medici non vi è traccia nella front page del sito della Federazione degli Ordini dei Medici. Se il confronto è stato così ampio come dice il Corriere rimane per me un mistero che né io, né gli altri quattro medici della mia famiglia, né una serie di colleghi che ho contattato ne sapessero alcunché.
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