In Guinea Conakry, il 16 settembre, una equipe di operatori sanitari, impiegati amministrativi e giornalisti che stava svolgendo una campagna di prevenzione, nell’ambito di un programma nazionale di contenimento dell’epidemia di ebola, è stata sterminata. È successo nel villaggio di Wome, situato nella provincia di Nzerekore, quella in cui l’epidemia è iniziata a febbraio.
Dalle prime ricostruzioni sembra che, mentre gli operatori sanitarispiegavano alla popolazione come difendersi dal virus, alcune persone abbiano iniziato a lanciare delle pietre contro di loro dopo che si era sparsa la voce che, in realtà, l’equipe aveva l’incarico di irrorare il villaggio con sostanze tossiche. La situazione è ben presto degenerata. Nove componenti dell’equipe sono stati uccisi. Gli abitanti del villaggio si sono disfatti dei cadaveri gettandone sette nella fossa settica di una scuola e due nella vicina boscaglia.
«Sono stati uccisi a sangue freddo – ha dichiarato il portavoce del capo di stato Albert Damantang Camara – a bastonate e a colpi di machete». Una giornalista è riuscita a mettersi in salvo: mentre era nascosta poco lontano dal villaggio – ha raccontato – ne ha sentito gli abitanti aggirarsi per ore alla sua ricerca. Le forze dell’ordine finora hanno arrestato sei persone.
Accade spesso che la popolazione reagisca con violenza contro il personale sanitario e contro le forze dell’ordine. Ad agosto, ad esempio, gravi disordini sono scoppiati a Nzerekore, il capoluogo di provincia non lontano da Wome, quando dei medici si sono recati in un mercato per disinfettarlo, ma la gente ha pensato che invece stessero infettando il luogo con il virus.
Analoghi episodi si verificano con frequenza in Liberia e Sierra Leone, gli altri due stati maggiormente colpiti dall’epidemia.
Il motivo è sempre lo stesso. Molta gente tuttora è convinta che ebola sia un’invenzione del governo e dei medici: per attirare la gente negli ospedali ed espiantarne gli organi, per ottenere fondi dalla cooperazione internazionale e per chissà quali altri fini non dichiarati. Oppure pensa che sia il personale medico e sanitario a diffondere la malattia.
In Sierra Leone, per tentare di fermare la diffusione del virus, il governo ha ordinato tre giorni di coprifuoco, interruzione di tutte le attività e confinamento in casa della popolazione, a partire dalla mezzanotte del 18 settembre. 30.000 volontari sono andati di casa in casa alla ricerca di ammalati e di vittime tenuti nascosti. Inoltre avevano l’incarico di distribuire del sapone e di fornire informazioni su come evitare il contagio. Proprio in considerazione del diffuso clima di tensione e diffidenza, per evitare incidenti, i volontari avevano ordine di non entrare nelle case e, se necessario, chiedere aiuto alle forze dell’ordine. Alla fine dei tre giorni, le autorità hanno dichiarato che l’operazione è stata un successo. In tutto le equipe di volontari hanno provveduto alla sepoltura di una sessantina di vittime di ebola e hanno individuato 22 nuovi casi che, se non fossero stati scoperti, avrebbero grandemente contribuito alla diffusione dell’epidemia.
Tuttavia l’iniziativa potrebbe accrescere la diffidenza della gente e convincerla ancor di più a nascondersi, nel tentativo di tenersi alla larga da chi agli occhi di molti costituisce una minaccia. Di questo parere sono i Medici senza frontiere, fortemente critici nei confronti del provvedimento governativo: il risultato – sostengono – sarà un’ulteriore diffusione dell’epidemia.
Gli ultimi dati forniti dall’Organizzazione mondiale della sanità portano a 2.630 le vittime: 1.459 in Liberia, 601 in Guinea, 562 in Sierra Leone, 8 in Nigeria I casi di contagio accertati sono ormai più di 5.300: metà dei quali si sono verificati nelle ultime tre settimane, ben 700 negli ultimi sette giorni, a riprova del fatto che la diffusione dell’epidemia sta accelerando.
Lo confermano, per quel che riguarda la Liberia, i missionari salesiani e della Consolata di Monrovia. “Ogni giorno si registrano nuovi casi – riferivano all’agenzia MISNA il 15 settembre – la mattina si possono trovare cadaveri lasciati sulla strada nella notte da persone che non vogliono farsi identificare”; per di più molti casi sfuggono alle statistiche: «tanti muoiono in casa, spesso in villaggi remoti dove non ci sono centri di assistenza».
Gli Stati Uniti stanno per inviare 3.000 militari in Liberia per monitorare la costruzione di 17 centri sanitari specializzati, la formazione di operatori sanitari, 500 alla settimana, e la distribuzione di kit protettivi a 400.000 famiglie. Dalla Malesia arriveranno 20 milioni di guanti di gomma. Cuba ha mandato 165 tra medici e infermieri, la Cina 174. Le Nazioni Unite chiedono un miliardo di dollari alla comunità internazionale: «un mese fa avevamo chiesto 100 milioni – ha detto David Nabarro, coordinatore ONU per il contrasto al virus, parlando a un summit dell’Oms svoltosi a Ginevra il 16 settembre – ma adesso siamo a un miliardo. Siamo di fronte a una crisi umanitaria senza precedenti nei tempi moderni».
Il mondo, seppure in ritardo, si mobilita. Ma l’emergenza ebola insegna che non si rimedia in pochi mesi a decenni di incuria durante i quali i governi e i leader susseguitisi non si sono preoccupati di creare dei sistemi sanitari di base funzionanti. I fondi per farlo non sono mancati. La Liberia ha solo quattro milioni di abitanti, la Sierra Leone ne ha 5,7 milioni, la Guinea 11,4.
di Anna Bono
Tratto da: http://www.lanuovabq.it/
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