Ebola, in Sierra Leone l’epidemia è finita. «Dal terrore alla speranza»

ebola-sierra-leone-ansa1Il virus si è diffuso per 18 mesi, ha contagiato 14.089 persone, uccidendone 3.955. Intervista a Nicola Orsini, responsabile di Avsi nel paese.

«Qualcuno ricomincia timidamente a stringersi la mano, ma sono pochi. E all’ingresso dei luoghi pubblici restano i punti per lavarsi le mani». Domani la Sierra Leone sarà dichiarata ufficialmente “Ebola free”. L’epidemia, scoppiata nel febbraio del 2014 in Guinea, si è rapidamente diffusa in Liberia e Sierra Leone. Qui ha contagiato 14.089 persone, uccidendone circa un quarto (3.955). Oggi l’epidemia sarà dichiarata conclusa, essendo passati 42 giorni senza nuovi casi, ma la Sierra Leone non può permettersi cali di tensione: «Questo è solo il primo passo, vogliamo evitare di finire come la Liberia, dichiarata libera quando poi dopo un mese si sono verificati nuovi casi», dichiara a tempi.it Nicola Orsini, responsabile di Avsi nel paese dell’Africa occidentale.

Se il virus è debellato, c’è ancora il rischio che si ripresenti?
Sì. Il rischio maggiore pare che sia nei sopravvissuti: dai primi dati sappiamo che il virus rimane nello sperma per oltre 90 giorni. Ebola dà anche problemi alla vista.

La Sierra Leone però è pronta a festeggiare?
Domenica e lunedì ci sarà qualche celebrazione, anche se il governo non le ha ancora confermate. Dovrebbe essere dichiarata festa nazionale. La gente è molto contenta.

Tutto torna alla normalità?
Il coprifuoco che spegneva la città alle sei di sera è stato eliminato da più di un mese. Anche le scuole hanno riaperto il 15 aprile, la vita sociale lentamente ricomincia. Ma non dobbiamo fare un errore: ora bisogna andare avanti, l’obiettivo non è tornare a prima di Ebola.

E come si fa?
L’educazione è importante, perché la sua mancanza ha contribuito al diffondersi dell’epidemia. Ora sono nati diversi comitati: uno aiuterà le ragazze madri, problema aumentato a causa della chiusura per nove mesi della scuola, a recuperare le lezioni; un altro ha lo scopo di migliorare i servizi idrici e igienici, perché l’epidemia si è diffusa anche a causa della mancanza di acqua nelle case. Dobbiamo aiutare la popolazione ad affrontare le ragioni per cui il virus si è diffuso.

La popolazione pensa ancora che Ebola sia frutto di stregoneria?
È chiaro che i villaggi rappresentano la sfida più difficile. Nel luglio del 2014, quando sono andato in molti villaggi a informare sull’epidemia, ho spiegato anche che probabilmente il virus è stato portato dalla carne di scimmia. Ho sconsigliato quindi di mangiarla, ma la gente è rimasta sorpresa e mi ha detto: “Ma l’abbiamo sempre mangiata e non ci è mai successo niente”. Qualcosa si è mosso anche nelle aree rurali, ma è difficile.

Ci sono stati dei miglioramenti?
Certo. Per quanto riguarda i funerali, non è più possibile seppellire un cadavere come si vuole ma bisogna informare le autorità. Col tempo magari non si faranno più test su tutti i corpi, ma su quelli che muoiono per cause riconducibili al virus sì. Anche il sistema sanitario si è sviluppato.

Come?
Quando sono arrivato in Sierra Leone quattro anni fa, non ho mai visto un’ambulanza. Ora ce ne sono moltissime ed è già stato proposto che il numero di emergenza creato per i casi di Ebola venga mantenuto per il pronto intervento. Poi certo, bisogna preoccuparsi che le ambulanze continuino a funzionare nel tempo, ma è un passo positivo.

Di che cosa ha bisogno il paese per ripartire?
La comunità internazionale non deve abbandonarci. Da prima di Ebola tante cose sono cambiate. Abbiamo bisogno di non essere lasciati soli, ma anche l’aiuto non deve trasformarsi in assistenzialismo. Bisogna accompagnare le persone a tutti i livelli ed educarle a prendersi le proprie responsabilità.

C’è un’immagine che le è rimasta impressa in questi 18 mesi di epidemia?
Ricordo quando abbiamo cominciato un intervento di sostegno alle famiglie in quarantena. Una volta ci siamo recati in un villaggio completamente in quarantena: all’entrata c’era l’esercito a controllare. Noi portavamo il cibo a 32 famiglie, che dovevano stare dietro una corda e non potevano avvicinarsi a noi. Tra loro c’erano due ragazzini. Tre giorni prima, quando eravamo andati a visitare il villaggio per capire quanti aiuti portare, la loro famiglia era composta da sette persone. Tre giorni dopo erano rimasti solo loro due. Erano tristi e si sentivano soli, ma quando ci hanno visti arrivare ci hanno sorriso e ringraziato per il nostro aiuto. Non scorderò le loro facce.

Nessuno li aiutava?
Al contrario, i vicini facevano da mangiare, si sono presi cura di loro. Quando un mese dopo siamo tornati in quel villaggio, non era più in quarantena ma la gente aveva perso tutto. Allora abbiamo organizzato una fiera agricola e abbiamo comprato per loro nuovi strumenti e nuove sementi, perché per un anno non avevano potuto coltivare i campi ed erano rovinati. Abbiamo fatto poco per il bisogno infinito che c’era ma tutti hanno riconosciuto il nostro gesto come importante. Il capo villaggio è venuto da me e nonostante avessero perso tutto, mi ha donato in segno di riconoscenza due polli e della verdura. Io non me l’aspettavo, non penso di aver fatto chissà cosa, ma per loro è stato fondamentale e io mi sono commosso. Questa cosa me la porto dentro e nessuno me la toglierà.

Da dove si può ripartire dopo la morte di quattromila persone?
Dalla speranza che ho visto nei volti e nei gesti dei miei colleghi. C’è stato un momento in cui tutti erano terrorizzati. A dicembre il mio collega Ernest è andato a fare benzina e scendendo dalla macchina è stato sfiorato da un uomo: è corso in ufficio a lavarsi. Questo era il clima di paura. Eppure noi andavamo nelle case in quarantena, non da sciocchi, ovviamente, ma protetti il più possibile, anche solo per dire una parola di conforto alle famiglie. Ricordo un caso in particolare.

Quale?
Il nostro coordinatore del sostegno a distanza ci ha detto che uno dei bambini stava male. Eravamo in piena epidemia e lui è corso in quella casa, ha preso il bambino e l’ha portato in ospedale. Arrivato davanti alla clinica, il piccolo ha vomitato e tutti, medici compresi, sono scappati via. Lui invece l’ha preso e portato dentro, dove è stato messo in isolamento. Per fortuna non era Ebola, ma solo malaria. Io ho visto tanti segni di speranza come questo, nati dalla certezza di un bene che c’è ed è in ogni persona. Anche noi di Avsi ripartiremo da qui.

Foto Ansa

Ti è piaciuto l'articolo? Sostienici con un "Mi Piace" qui sotto nella nostra pagina Facebook