C’è un massima nel Vangelo che si sente spesso recitare dai cristiani ed è quella che dice: “I nemici saranno quelli di casa sua”. Una massima che potrebbe applicarsi benissimo nel caso della scomparsa di Emanuela Orlandi che, secondo il giornalista Pino Nicotri, ascoltato dalla Commissione Parlamentare d’Inchiesta, ha rivelato come Emanuela Orlandi non fu rapita, ma quasi certamente finì vittima di una violenza familiare commessa da un parente o da un amico di famiglia.
La convinzione di Nicotri si concilia perfettamente con quella di uno dei protagonisti principali del caso Orlandi. Parliamo del pm Domenico Sica. Secondo quanto riferì il magistrato Ilario Martella, Domenico Sica indagò poco o nulla sulla pista “bulgara”, cioè sulla pista che voleva Emanuela Orlandi rapita per essere scambiata con il terrorista Ali Agca, l’attentatore di Giovanni Paolo II, poiché convinto che dietro la scomparsa di Emanuela si nascondeva una storia tra la ragazza e suo zio Mario Meneguzzi, marito di Lucia Orlandi, sorella di Ercole Orlandi, il papà di Emanuela.
La domanda nasce spontanea: “In base a quali elementi Sica era convinto che Mario Meneguzzi fosse colpevole della sparizione della nipote?”. Per capirlo, bisogna tornare al 30 agosto 1983 quando un ufficiale dei carabinieri raccolse la confidenza di Andrea Ferraris, fidanzato di Natalina Orlandi e oggi suo marito, il quale rivelò che Mario Meneguzzi, impiegato alla Camera dei Deputati e con importanti agganci politici, aveva molestato Natalina, sorella maggiore di Emanuela. Quella confessione dovette essere così rilevante da convincere i militari dell’Arma a prelevare Natalina e ad accompagnarla da Sica, per raccontare cosa fosse successo tra lei e lo zio.
Dopo l’interrogatorio, la Procura di Roma inviò una informativa alla Segretaria di Stato Vaticano per verificare l’attendibilità della rivelazione di Natalina. La risposta giunta dalla Santa Sede non si era fatta attendere e, in un documento datato 8 settembre 1983, confermava le “morbose attenzioni sessuali” che lo zio Mario aveva rivolto nel 1978 alla nipote Natalina, minacciando anche di farla licenziare dalla Camera dei Deputati, dove la ragazza lavorava come segretaria di un ufficio legale anche grazie all’interessamento dello zio, se avesse parlato della cosa in giro.
Non solo, ma a metà agosto del 1983, quindi due mesi dopo la scomparsa della giovane cittadina vaticana, alla Procura di Roma giunsero alcune lettere anonime, inviate da alcuni ex dipendenti della Camera dei Deputati in pensione, i quali dissero che se voleva scoprire la verità su Emanuela Orlandi avrebbe fatto bene a indagare proprio sullo zio Mario, indicato come braccio destro di Mario Peruzy, direttore amministrativo del Parlamento, e appartenente a una combriccola parlamentare che pare avessero l’abitudine di mercificare la proprio funzione e il proprio ruolo per estorcere sesso alla dipendenti di Montecitorio o a chi ambiva a entrarci. Confessioni anonime che si allineavano perfettamente con le indagini dei carabinieri che consegnarono a Sica una informativa ben dettagliata su Mario Meneguzzi, ritenendo opportuno metterlo sotto osservazione proprio in merito alla scomparsa della nipote.
Furono probabilmente questi elementi a spingere Sica a fare pedinare Meneguzzi, forse sospettando che l’uomo potesse aver riservato a Emanuela lo stesso trattamento riservato a Natalina. Natalina che in conferenza stampa ha derubricato le “morbose attenzioni sessuali” dello zio a “piccole avance verbali” senza spiegare il motivo che la spinse a parlarne con il suo confessore spirituale che le definì “terrorizzata” e senza chiarire cosa spinse i carabinieri a prenderla di peso e a portarla in Procura se si fosse trattato di un caso così banale. I carabinieri non si muovono per dei semplici corteggiamenti fatti a base di parole, ma per dei reati. Cosa che lascia sospettare qualcosa di più di piccole avance fatte di semplici parole.
Comunque sia, Mario Meneguzzi dovette essere particolarmente ansioso in quei giorni, tanto da assumere un atteggiamento cauto che gli permise di accorgersi di essere seguito da qualcuno. Solo che, anziché rivolgersi agli inquirenti per scoprire l’identità dei pedinatori, si rivolse a un amico di famiglia, Giulio Gangi, un giovane entrato da poco nei servizi segreti, il quale, dopo aver fatto delle verifiche, lo avvisò di avere la polizia alle calcagna, finendo per bruciare l’intera operazione e rischiando anche una incriminazione per favoreggiamento. Curioso come, in Commissione Parlamentare, Pietro Meneguzzi, figlio di Mario, abbia detto che il padre temeva di essere seguito dai rapitori di Emanuela e che quando seppe che quei ceffi erano poliziotti l’allarme rientrò. Una dichiarazione strana e paradossale perché, se fossero stati rapitori, quale occasione migliore per trattare la liberazione di Emanuela?
Resta il fatto che la soffiata di Giulio Gangi fu una leggerezza sciagurata che impedì a Sica di fare indagini serie sullo zio di Emanuela, costringendolo a mettere fine all’inchiesta perché il Meneguzzi, sapendo di essere finito nel mirino degli investigatori, avrebbe preso tutte le debite precauzioni per non essere scoperto. Una debacle che spinse Sica a disinteressarsi anche della pista bulgara, lasciando che a correre dietro al vento ci pensasse il suo collega Ilario Martella, perché convinto che la scomparsa di Emanuela Orlandi nascondeva “una storia tra lo zio e la nipote”. Una storia che non poteva più essere provata dopo l’infelice soffiata di Giulio Gangi.
Ma in base a quale ipotesi istruttoria Domenico Sica fece pedinare Mario Meneguzzi? Solo in virtù delle rivelazioni di Andrea Ferraris e delle lettere anonime? Quasi certamente no. Quando il giornalista Pino Nicotri chiese a Sica per quale motivo avesse fatto seguire lo zio di Emanuela, il pm fu molto evasivo nella risposta, chiese di passare a un’altra domanda. Come mai lo fece se era convinto della storiaccia tra zio e nipote? Ma soprattutto su quali basi poggiavano le sue certezze?
Le risposte potrebbero essere tre. Tanto per cominciare, Sica non rimase mai convinto dell’alibi di Mario Meneguzzi. L’uomo disse che il 22 giugno 1983 si trovava in vacanza a Torano, un paese vicino Rieti, ma a parte i familiari, le cui testimonianze, in mancanza di altri riscontri imparziali, in sede giudiziaria valgono meno di zero, nessun altro può confermarlo. Inoltre, Torano non si trova in un posto “lontanissimo”, come ha riferito Pietro Orlandi in conferenza stampa. Dista appena cento chilometri da Roma. Raggiungibile in un’ora di viaggio. Se si considera che Ercole Orlandi disse di aver telefonato il cognato solo a mezzanotte, cioè cinque ore dopo la scomparsa della figlia, nulla vieta di pensare che Mario Meneguzzi, in linea teorica, poteva fare una capatina a Roma tornare e Torano in poco tempo.
C’è poi un altro particolare che forse a Sica non dovette sfuggire. Nella denuncia di scomparsa presentata alla polizia, Natalina Orlandi disse che Emanuela, la sera della sparizione, indossava una camicetta bianca a mezze maniche. Lo zio Mario, invece, disse all’Ansa che la nipote portava una maglietta bianca a mezze maniche. Un particolare, il secondo, confermato anche da Raffaella Monzi, una delle ultime compagne di Conservatorio di musica a vedere Emanuela, che in una intervista rilasciata all’Unità nel 1993 confermò che Emanuela indossava una maglietta. Adesso, se lo zio si trovava a Torano, come faceva a sapere che la nipote portava una maglietta? E come mai sui manifesti che tappezzarono i muri di Roma la maglietta sparì per magia e comparve di nuovo la camicetta? Un errore o un passo falso?
La terza risposta potrebbe essere racchiusa in un dettaglio che se verificato potrebbe tagliare la testa al toro. Il giorno della scomparsa di Emanuela, due pubblici ufficiali, il vigile urbano Andrea Sambuco e il poliziotto Bruno Bosco, riferirono di aver visto una ragazza simile a Emanuela Orlandi a colloquio con un uomo appena uscita dalla scuola di musica. I due ufficiali tracciarono anche un identikit dell’uomo. Il profilo che venne fuori aveva aveva una sorprendente somiglianza proprio con il ritratto di Mario Meneguzzi. Il giornalista Pino Nicotri ha affermato che Sambuco e Bosco furono interrogati solo nel 1985 dal giudice Ilario Martella, descrivendo l’uomo a colloquio con Emanuela Orlandi, ma le cose non stanno affatto così. Leggendo un articolo del quotidiano L’Unità del 29 luglio 1983, si nota che Alfredo Sambuco fu convocato da Domenico Sica già il 27 luglio 1983, ma l’uomo non si presentò.
Questo dimostra che Sica era a conoscenza dei due testimoni oculari, uno dei quali era proprio Sambuco. Il dato da mettere in risalto è che Sambuco alla fine sarà interrogato da Domenico Sica. Fu lo stesso Sambuco, dopo essere andato in pensione, a riferirlo a Nicotri nel 2002. L’uomo disse di “non aver mai parlato di Avon né con i carabinieri né con Domenico Sica quando mi ha interrogato”. Come si vede, non è vero che Sambuco fu interrogato da Martella solo nel 1985, ma anche da Sica nel 1983. La domanda da porsi è questa: “In che giorno e mese Sambuco fu convocato e interrogato da Sica?”. La risposta a questa domanda potrebbe essere cruciale perché se fosse avvenuta a settembre del 1983, dopo che Sica aveva saputo delle attenzioni sessuali di Mario Meneguzzi su Natalina Orlandi, questo non vieterebbe di pensare che Sica possa aver mostrato a Sambuco una foto di Mario Meneguzzi per sapere se l’uomo visto parlare con quella che si suppone era Emanuela Orlandi fosse lui, ricevendo da Sambuco una risposta affermativa.
Questo potrebbe spiegare i motivi per cui Sica era convinto delle responsabilità di Mario Meneguzzi, facendolo pedinare forse nel tentativo di raccogliere prove che avrebbero potuto inchiodarlo alle sue eventuali responsabilità, prima che Gangi mandasse tutti all’aria. A quel punto, forse anche su pressioni giunte dall’esterno, in particolare dal Sisde, che temeva che in questo modo venisse affossata la pista bulgara, Sica decise di chiudere tutti i documenti in un cassetto, lasciando il posto al collega Ilario Martella. Con una nota stonata: Sica trasmise a Martella anche i documenti che aveva raccolto sul caso Orlandi, ma quei documenti non giunsero mai a destinazione. Come mai? Forse perché lì era nascosta la verità su Emanuela Orlandi? Se le cose stessero così, qualcuno adesso avrà il coraggio di tirarli fuori?
Mario Barbato
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