Esercito della Salvezza, angeli in divisa o truppe di cartone? Viaggio nell’impero della carità patentata fra scandali e paradossi

Dove si racconta di come un predicatore vittoriano creò un esercito senza cannoni, di come i salvati talvolta attendano il permesso dei salvatori, e di come le trombe della carità suonino più forte delle campane della giustizia.

C’era una volta un predicatore inglese che, guardando i miserabili di Londra — quelli che Charles Dickens raccontava ma che le brave signore preferivano non vedere — ebbe un’illuminazione. Non potendo portare i disgraziati in chiesa, avrebbe portato la chiesa dai disgraziati. E per farlo, non trovò di meglio che vestirsi da militare. È così che nel 1865 William Booth, un metodista con la barba da profeta e l’ostinazione di un sergente prussiano, fondò quello che sarebbe diventato l’Esercito della Salvezza.

Un esercito singolare, bisogna ammetterlo: i suoi soldati combattono con zuppe e preghiere, i suoi cannoni sparano Bibbie, e le sue uniformi sembrano uscite da un’operetta di Gilbert e Sullivan. Eppure, centocinquant’anni dopo, questo improbabile esercito di anime pie è diventato una multinazionale della carità, con un fatturato che farebbe impallidire molte aziende quotate in borsa. Ma come in ogni storia di successo, c’è sempre un “dietro le quinte” che vale la pena di esplorare, possibilmente con un paio di guanti.

Generali senza guerra e colonnelli senza battaglie

Tra le tante bizzarrie dell’Esercito della Salvezza, la più spassosa è certamente la sua struttura militare. Avete presente quelle repubbliche sudamericane dove ci sono più generali che soldati? Ecco, qualcosa del genere. Solo che qui i gradi non si conquistano sul campo di battaglia, ma nelle sale parrocchiali.

Il leader supremo dell’organizzazione porta il titolo di “Generale”, come se dovesse comandare la carica a Waterloo, quando in realtà il suo campo di battaglia più impegnativo è probabilmente la riunione annuale del consiglio direttivo. Sotto di lui, un’impressionante gerarchia di commissari, colonnelli, maggiori e capitani, tutti perfettamente allineati come soldatini di piombo. Dopotutto, se non puoi vincere una guerra vera, perché non inventartene una tutta tua?

Come ha osservato il professor Mark Lyons dell’Università di Sydney, “l’Esercito della Salvezza è strutturato come se dovesse conquistare l’Europa, non sfamare i senzatetto” (Lyons, 2020). Un’osservazioneche il Generale Brian Peddle, ex comandante supremo, ha rispedito al mittente, sostenendo che “la struttura militare garantisce efficienza e rapidità d’azione” (intervista al Christianity Today, 2022). Certo, certo. Come le Poste Italiane.

Un rapporto interno trapelato nel 2018 raccontava una storia diversa: il 68% degli ufficiali intervistati considerava la struttura “troppo rigida e anacronistica”. Tradotto dal linguaggio diplomatico: un carrozzone burocratico degno di un ministero borbonico.

La verità è che questa struttura verticistica, questo gioco di divise e gradi, ha un effetto collaterale non da poco: soffoca il dissenso interno come un cuscino sulla faccia. Chi oserebbe contraddire un “colonnello”? Chi avrebbe il coraggio di dire al “Generale” che sta sbagliando? In un’epoca in cui anche la Chiesa Cattolica — che di gerarchie se ne intende — si sforza di essere più democratica, l’Esercito della Salvezza sembra ancorato a un modello di governance che farebbe arrossire di invidia lo Zar di tutte le Russie.

La zuppa con la predica incorporata

“Zuppa, sapone e salvezza”. Questo il motto dell’Esercito, anche se non proprio ufficiale. Nell’ordine: prima ti riempio la pancia, poi ti lavo, infine ti salvo l’anima. Un pacchetto completo, insomma. Praticamente un tre-in-uno come quelli che vendono al supermercato.

I numeri sono impressionanti, questo va riconosciuto. Solo negli Stati Uniti, nel 2023, hanno servito 57 milioni di pasti e offerto 10 milioni di notti di alloggio. Ci vuole un bel coraggio per non togliersi il cappello di fronte a questi dati. Ma il cappello, una volta tolto, lascia scoperta la testa. E la testa, si sa, serve per pensare. E pensando, viene da chiedersi: questa carità è davvero gratuita o ha un prezzo nascosto?

L’Esercito della Salvezza sostiene ufficialmente che i suoi servizi sono “disponibili a tutti, senza discriminazioni”. Una frase nobile che, come tutte le frasi nobili, andrebbe verificata sul campo. E il campo racconta un’altra storia.

Nel 2017, un’indagine del San Francisco Chronicle ha scoperto che nel 76% dei centri esaminati venivano distribuiti materiali religiosi insieme agli aiuti, e nel 41% dei casi era richiesta la partecipazione a funzioni religiose per accedere ad alcuni servizi. Una specie di pedaggio spirituale, insomma. Come dire: la minestra è gratis, ma il sermone è obbligatorio.

“Non c’è coercizione”, si è affrettato a precisare l’ex portavoce nazionale, David Hudson. “Ma crediamo che il benessere spirituale sia importante quanto quello materiale.” Una frase che suona come quelle dei venditori di enciclopedie porta a porta: “Non è un obbligo, signora, è un’opportunità!”

Robert Marbut, esperto di politiche sui senzatetto, ha messo il dito nella piaga: “Quando hai fame o freddo e ti viene detto che dopo il pasto c’è una funzione religiosa ‘facoltativa’, quanto è davvero facoltativa questa scelta?” Domanda retorica, ovviamente. Come chiedere a un naufrago se preferisce una zattera con o senza predica.

Uno studio dell’Università del Michigan del 2023 ha confermato il sospetto: il 54% dei beneficiari dei servizi dell’Esercito della Salvezza si era sentito in qualche modo pressato ad ascoltare messaggi religiosi. Una percentuale che farebbe impallidire persino i venditori di pentole del Bronx.

Omosessuali? Sì, ma solo se pentiti

Se c’è un capitolo in cui l’Esercito della Salvezza mostra tutta la sua età — e non nel senso del vino d’annata — è quello dei diritti LGBTQ+. Qui siamo di fronte a un caso paradigmatico di doppio standard: in pubblico, sorrisi e dichiarazioni inclusivi; nei regolamenti interni, un’altra storia.

Nel 2001, l’Esercito negli Stati Uniti fece lobbying sull’amministrazione Bush per ottenere un’esenzione dalle leggi antidiscriminazione. In pratica, volevano il diritto legale di dire: “Mi dispiace, sei gay? Non puoi lavorare qui.” Una posizione che provocò un boicottaggio così efficace da far perdere all’organizzazione milioni di dollari in donazioni. Il mercato, a quanto pare, non sempre apprezza l’omofobia.

Nel 2012, un ufficiale australiano dell’Esercito, il Maggiore Andrew Craibe, durante un’intervista radiofonica, ammise candidamente che secondo la loro dottrina gli omosessuali “meritano la morte”. Un’affermazione che, è il caso di dirlo, non suonava particolarmente caritatevole. L’organizzazione si affrettò a scusarsi, sostenendo che le parole di Craibe erano state “fraintese”. Curioso come certe frasi vengano sempre “fraintese”, mai pronunciate.

Nel 2017, un documento interno rivelò che l’Esercito richiedeva ai suoi dipendenti la firma di un “patto di moralità” che includeva l’astensione da “pratiche omosessuali”. Come dire: puoi essere gay, basta che non lo pratichi. Un po’ come dire a un appassionato di calcio: puoi tifare per la tua squadra, ma non guardare le partite.

L’ipocrisia ha raggiunto il suo apice nel 2021, quando l’Esercito pubblicò un documento apparentemente progressista intitolato “Let’s Talk About… LGBTQ+ Allies”, per poi ritirarlo pochi mesi dopo a seguito delle proteste dell’ala conservatrice. Un passo avanti e due indietro, la danza preferita dei moralisti in difficoltà.

La vicenda di Danielle Morantez, ufficiale licenziata nel 2013 dopo aver rivelato di essere bisessuale, è emblematica. “Mi è stato detto che potevo continuare a lavorare solo se avessi accettato di rimanere celibe per tutta la vita”, ha raccontato. “Questo mentre ai miei colleghi eterosessuali era permesso sposarsi e avere figli.” Una strana concezione dell’uguaglianza, che ricorda quella della fattoria di Orwell: tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri.

Paradossale, per quel che riguarda l’Italia, è poi la vicenda di uno noto esponente del mondo Lgbtqi+, tale Alessandro Naclerio, ricevuto con tanto di marito in pompa magna fra i ranghi dell’Esercito della Salvezza con la benedizione dei pastori del posto, Paolo e Virginia Longo, e della leaderhip nazionale: il Tenente Colonnello Andrew Morgan, sua moglie, la Tenente Colonnella Darlene Morgan, la Maggiore Cinzia Walzer-Carpagnano, e suo marito, il Maggiore Samuel Walzer. 

I conti della serva… o del Generale?

Parliamo di soldi, che in fondo è sempre l’argomento più interessante. Le famose pentole rosse dell’Esercito raccolgono ogni anno centinaia di milioni di dollari. Solo negli Stati Uniti, nel 2023, hanno rastrellato 2,9 miliardi di dollari. Una cifra che farebbe brillare gli occhi a qualsiasi ministro delle finanze.

Charity Navigator, l’organizzazione che valuta le associazioni no-profit, assegna all’Esercito un punteggio di 3 stelle su 4 per la trasparenza finanziaria. Una valutazione che ricorda quei ristoranti decorosi ma non eccellenti, dove si mangia senza infamia e senza lode.

Il vero problema è che l’Esercito si rifiuta di pubblicare i salari dei suoi dirigenti. “Per una questione di privacy”, sostiene il commissario Kenneth Hodder. Una scusa che suona tanto come quelle dei politici quando non vogliono far sapere quanto guadagnano: “Per motivi di sicurezza”. Sicurezza da chi? Dai contribuenti indignati?

Un’inchiesta del The Detroit Free Press del 2019 ha rivelato che in alcuni stati americani fino al 25% delle donazioni viene utilizzato per spese amministrative e di raccolta fondi. Un quarto del denaro che finisce in buste paga, affitti e bollette. Non propriamente il miglior modo di moltiplicare i pani e i pesci.

In Italia, i rendiconti finanziari dell’Esercito sono così essenziali che sembrano scritti da un poeta minimalista. Secondo l’Istituto Italiano della Donazione, “mancano informazioni cruciali sulla ripartizione delle spese”. Tradotto: sappiamo quanto raccolgono, ma non esattamente come lo spendono. Un dettaglio non proprio irrilevante.

Salvare i selvaggi col tamburo e la Bibbia

Se c’è un’immagine che riassume l’approccio dell’Esercito della Salvezza ai paesi in via di sviluppo, è quella dell’ufficiale in uniforme occidentale che marcia in un villaggio africano, suonando il tamburo e distribuendo Bibbie. Un’immagine che potrebbe essere uscita da un libro di Kipling, se non fosse che oggi siamo nel 2025 e non nel 1890.

Lo storico Harold Begbie racconta come gli ufficiali dell’Esercito in India indossassero uniformi occidentali e imponessero pratiche culturali britanniche ai convertiti locali. Un po’ come se, per entrare nel Regno dei Cieli, fosse necessario prima imparare a bere il tè con il mignolo alzato.

Nel 2018, l’antropologa Jane Wilson ha evidenziato come in molti paesi africani l’Esercito continui a operare con un approccio “top-down”, imponendo soluzioni pensate a Londra o New York senza consultare le comunità locali. Come se un inglese che non ha mai visto un baobab sapesse meglio di un africano come si deve vivere all’ombra di quell’albero.

Nel 2021, Oxfam ha incluso l’Esercito tra le organizzazioni che praticano un “aiuto neocoloniale”. Il colonialismo del XXI secolo, insomma: non più con i cannoni, ma con i pacchi di aiuti e le lezioni di morale.

Il caso più emblematico è quello delle “Case per ragazze indigene” in Australia, dove migliaia di bambine aborigene furono separate dalle loro famiglie per essere “civilizzate”. Una pratica che oggi chiamiamo genocidio culturale, ma che all’epoca si chiamava “missione civilizzatrice”. Nel 2010, l’Esercito si è scusato. Meglio tardi che mai, verrebbe da dire. Ma forse le scuse, dopo settant’anni, sono come mandare un mazzo di fiori dopo aver demolito una casa.

Carità o giustizia? Il dilemma del pescatore

La domanda fondamentale è: dopo più di un secolo e mezzo di zuppe distribuite, di coperte donate, di sermoni predicati, l’Esercito della Salvezza ha contribuito a ridurre strutturalmente la povertà? O si è limitato a renderla più sopportabile, come un’aspirina per un malato di cancro?

Il professor Mark Rank, con una metafora che sembra uscita da un vangelo apocrifo, osserva: “La carità offre un pesce a chi ha fame, la giustizia sociale insegna a pescare e, soprattutto, combatte chi ha privatizzato il lago.” Una distinzione che l’Esercito sembra non cogliere, o forse preferisce non cogliere.

L’87% delle attività dell’Esercito negli Stati Uniti è orientato all’assistenza immediata. Solo il 13% è dedicato a programmi che potrebbero effettivamente tirare fuori le persone dalla povertà. È come se un medico passasse l’87% del suo tempo a distribuire cerotti e solo il 13% a curare le malattie.

La vera questione è che l’Esercito tende a vedere la povertà come un problema principalmente morale e personale, non strutturale. Un sondaggio interno del 2019 ha rivelato che il 64% degli ufficiali considerava “la mancanza di fede religiosa e di valori morali” come la principale causa della povertà cronica. Non la disuguaglianza economica (18%), non il razzismo sistemico (12%). No, la mancanza di fede. Come se i poveri fossero poveri perché non pregano abbastanza.

È una visione che ricorda quella dei vittoriani, che distinguevano tra “poveri meritevoli” e “poveri immeritevoli”. I primi erano quelli che, nonostante la miseria, mantenevano un contegno morale; i secondi erano i viziosi, gli ubriaconi, i dissoluti. Una distinzione comoda, che permetteva di aiutare i primi con la coscienza pulita e di ignorare i secondi con altrettanta serenità.

Conclusione: angeli con le ali di cartone

Sarebbe facile, a questo punto, liquidare l’Esercito della Salvezza come un anacronismo, un fossile del vittorianesimo che si ostina a marciare in un mondo che lo ha superato da tempo. Ma sarebbe anche ingiusto.

Perché dietro le uniformi antiquate, dietro la retorica moralistica, dietro la struttura gerarchica, ci sono persone che ogni giorno si sporcano le mani per aiutare gli ultimi. Ci sono pasti serviti, coperte distribuite, conforto offerto. E questo, in un mondo spesso indifferente alla sofferenza, non è cosa da poco.

Il problema è che l’Esercito della Salvezza sembra intrappolato in un paradosso: per fare il bene, usa strumenti che spesso producono altro male. È come un medico che cura con le sanguisughe: l’intenzione è nobile, ma il metodo è antiquato e talvolta dannoso.

L’Esercito della Salvezza è come quei vecchi zii che ogni tanto dicono cose imbarazzanti ai pranzi di famiglia, ma che poi ti prestano soldi quando sei nei guai. Li ami, ma vorresti che si aggiornassero un po’. Che capissero che il mondo è cambiato. Che la carità, oggi, non può più essere condizionata. Che la morale non può essere imposta. Che la povertà non è una colpa da espiare, ma un’ingiustizia da combattere.

In fondo, il vero problema dell’Esercito della Salvezza è che continua a combattere una guerra già vinta da altri, con armi ormai arrugginite. E mentre le sue trombe suonano la carica contro peccati ormai irrilevanti, le vere battaglie del nostro tempo — contro la disuguaglianza, contro lo sfruttamento, contro l’ingiustizia strutturale — restano senza soldati.

Come diceva Montanelli a proposito dei paladini delle cause perse: “La loro tragedia non è che combattono per qualcosa che non c’è più. È che non si accorgono che non c’è più.” Ed è difficile salvare il mondo quando non si capisce più come è fatto.

Fonti e riferimenti bibliografici

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