FEMMINICIDI PARTIGIANI: ORRORI ROSSI IN TEMPO DI PACE

STUPRI E MASSACRI DOPO IL 25 APRILE, ABUSI E MATTANZE DI DONNE E BAMBINE, NEL LIBRO ”IL SANGUE DEI VINTI” DI PANSA: MAMMA VIOLENTATA DAVANTI AI FIGLI, E POI SEPOLTA VIVA IN GIARDINO.

“I giovani facciano propri i valori costituzionali. La festa del 25 aprile ci stimola a riflettere come il nostro Paese seppe risorgere dopo la tragedia della seconda guerra mondiale. Un vero secondo risorgimento”. Lo ha detto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella al Quirinale ricevendo gli ex-combattenti. “Conoscere la tragedia il cui ricordo è ancora vivo ci aiuta a comprendere le tante sofferenze che si consumano alle porte dell’Europa che coinvolgono popoli a noi vicini”. Tanto è bastato all’Ansa per scrivere il titolo fazioso “No a riscritture della storia”. Siccome per passione (e studi) faccio lo storiografo trovo molto opportuno ripubblicare un articolo di alcuni mesi fa nella speranza che il Capo dello Stato impari tutta la storia e non solo quella che gli piace.

I FEMMINICIDI PARTIGIANI

Il femminicidio è una grave piaga della società contemporanea, epifenomeno di un retaggio culturale che nei secoli legittimò gli abusi maschilisti ma anche, o forse soprattutto, di una generale inaudita recrudescenza di belluina violenza sociale che miete vittime tra genitori anziani come tra bambini in culla. In Parlamento si sta cercando di dare una risposta legislativa al fenomeno con la nuova legge sul Codice Rosso in difesa delle donne che, però, come la precedente normativa sullo stalking,  rischia di rivelarsi solo un vacuo tentativo di smorzare gli effetti, a volte davvero imprevedibili, più che una reale soluzione per affrontare le vere cause. Se diamo uno sguardo alla nostra storia, inoltre, scopriamo purtroppo che il femminicidio è antico quanto la libertà d’Italia,

VIOLENTATE ANCHE LE VERGINI COME AI TEMPI DI NERONE

Tutti oggi si scandalizzano per episodi che balzano sulle prime pagine, a volte senza nemmeno conoscere il vortice di tensioni e violenze psicofisiche reciproche che ha portato ad un aggressione o peggio ad un omicidio, ma pochi s’indignano per le stragi di donne civili compiute dopo il 25 aprile 1945 dai partigiani liberatori e rimaste quasi tutte senza giustizia ed occultate nell’oblio storico: una delle rarissime lapidi in memoria di una vittima, quella per la 13enne Giuseppina Ghersi di Savona, è stata vandalizzata di recente da un vindice odio mai sopito che nessuno persegue né punisce come meriterebbe. Ma di casi simili al suo ce ne sono decine, centinaia… Secondo lo storico e giornalista Gian Paolo Pansa furono  2.365 le vittime. Si tratta di uno dei femminicidi più vergognosi d’Italia: un ricordo che, certamente, crea un po’ d’imbarazzo tra le stesse femministe, nella maggior parte dei casi di vocazione comunista e quindi magari figlie, sorelle, nipoti di coloro che quei crimini li perpetrarono con efferatezza: aggiungendo alla sanguinaria violenza omicida anche la sevizia e l’onta eterna dello stupro.

Come ai tempi di Nerone le vergini cristiane venivano deflorate dai gladiatori prima di essere uccise, come nella ignominiosa guerra di Bosnia le donne furono selvaggiamente violentate per giorni prima di essere sgozzate (o costrette a partorire il figlio dello stupro), anche nell’Italia liberata avvennero simili scempi. Con alcune sostanziali differenze: ai tempi di Roma vigeva una tirannide, in Bosnia c’era una cruenta guerra etnica, nel nostro paese, invece, si era in tempo di pace: il dittatore, il duce Benito Mussolini era infatti stato giustiziato il 28 aprile 1945, le forze militari fasciste si erano arrese, quelle tedesche si erano ritirate. L’Italia era stata liberata dall’occupazione il 25 aprile 1945. Ma proprio il mese di maggio fu uno sei più sanguinari e ferali tanto che il 7 maggio, ricorre l’anniversario della morte di ben quattro donne trucidate dagli orrori rossi in tempo di pace. La memoria ritorna alla provincia di Cuneo, seguendo la china dei racconti di un giornalista che da bambino andava ad assistere ai processi ai “neri” per vedere i “cattivi” puniti; uno storico che solo dopo aver scritto tanto sulla Resistenza e sui partigiani, ha narrato il suo viaggio nella Seconda Guerra mondiale attraverso il libro di alto valore storiografico “Il sangue dei Vinti” di Gian Paolo Pansa. Molteplici aneddoti, che giungono quindi da un ricercatore col cuore partigiano, raccontano di semplici civili, rapiti in casa all’improvviso da squadriglie di giustizieri improvvisati, a volte seviziati, poi uccisi; e donne con la sola colpa di presunti e mai provati collaborazionismi: bastava l’odore del sospetto a sancire la morte che giungeva persino benedetta quando era immediata. Ora alle vittime di questo immane femminicidio nascosto dalla storia vogliamo rendere un poco giustizia ricordando il loro martirio. A volte anche in nome di Gesù Cristo dinnanzi ai quei guerriglieri della Resistenza in larga parte atei e capaci di scegliersi Satana come nome di battaglia..

MICHELINA, 12 GIORNI DI VIOLENZE FEROCI

Non fu immediata per Francesca G., 42 anni, e sua figlia Michelina di 20, di Borgo San Dalmazzo, in quella provincia Granda di Cuneo dove la guerriglia tra partigiani e fascisti-tedeschi fu asperrima come in tutte le zone prealpine. Furono prelevate di casa il 29 aprile insieme al marito Giuseppe G. A difenderli non bastò nemmeno la circostanza che loro figlio Biagio morì fucilato dalle Brigate nere in quanto… partigiano! Michelina faceva la dattilograva saltuaria per guadagnare qualche soldo nei tempi duri della guerra, la sua colpa fu farlo per un capitano della Polizia militare della Littorio. Il 29 aprile i carnefici entrarono nella loro casa, portarono fuori il padre e la madre insieme a lei: il genitore fu subito giustiziato, le due donne furono rapate a zero e poi riportate in casa «per essere violentate a turno da una banda partigiana. Questa tortura andò avanti per qualche giorno» scrive Pansa. Il 7 maggio fu uccisa la mamma, l’11 toccò a Michelina. Solo Dio sa quante volte quella giovane invocò la morte in quei 12 giorni…

Lo stesso giorno in cui moriva Francesca, a Vercelli si consumava una delle più cruente stragi rosse, di cui si trova notizia su numerosi giornali locali. I giustizieri entrarono in una casa del rione Isola e, per futili motivi, freddarono Luigi Bonzanini, insieme alle sue nipoti di 16 e 21 anni, Elsa e Laura Scalfi, inerme e innocenti sorelle inseguite e uccise sul ballatoio. La vicenda mi fu raccontata direttamente dalla superstite dell’eccidio (vedi pdf in fondo all’articolo). Per non lasciare testimoni gli assassini tornarono poi in casa per eliminare anche la suocera del Bonzanini, Luigia Meroni, paralizzata a letto. I corpi furono buttati nel fiume Sesia. Fu uno dei pochi massacri ad avere parziale giustizia perché l’efferatezza dei partigiani fu tale che i mattatori di quell’eccidio, Felice Starda ed un suo complice, furono misteriosamente uccisi giorni dopo, si sospetta da loro stessi compagni: ma il nome di Starda fu inspiegabilmente iscritto tra le vittime per la Liberazione nella lapide del cimitero di Billiemme e la moglie ricevette l’indennizzo riservato ai caduti per la patria…

IL CADAVERE DELL’ATTRICE MILANESE

Al fine di evidenziare gli assurdi femminicidi dei liberatori rimasti senza giustizia e persino dimenticati dalla storia, non racconterò volutamente di tutte quelle ausiliarie giustiziate, per non fare confusione tra le donne combattenti e quelle civili. Ed ovviamente tacerò dei crimini avvenuti in tempo di guerra, prima del 25 aprile, sebbene quelli fascisti siano stati ampiamente propagandati ad infamia eterna e quelli partigiani passati sotto silenzio. Tra le vittime ce ne fu anche una famosa: l’attrice milanese Luisa Ferida, 31 anni, fu assassinata insieme al collega Osvaldo Valenti di 39, all’alba del 30 aprile in via Poliziano, giustiziata per accuse mai provate.

Per una donna, nell’Italia liberata, era esiziale anche solo aver fatto la segretaria di redazione in un giornale, se era quello sbagliato. Pia Scimonelli aveva 36 anni, e lavorava per Repubblica Fascista: «moglie di un ufficiale disperso in guerra nell’Africa orientale, era rimpatriata in Italia dall’Eritrea con la nave Vulcania, insieme ai suoi tre bambini. Aveva bisogno di lavorare per mantenerli ed era riuscita a trovare quel posto nel giornale…» precisa Pansa. Fuggì con due colleghi del giornale, trovò rifugio in un alloggio poi perquisito dai partigiani. Qualche giorno dopo di loro non si seppe più nulla: i loro tre cadaveri furono riconosciuti all’obitorio di via Ponzio.

GIUSTIZIATA SEBBENE INCINTA DI 5 MESI

Nessuna pietà nemmeno davanti ad una donna in gravidanza. Accadde il 27 aprile a Cigliano quando i partigiani fecero capitolare un gruppo di fascisti che, dopo aver tentato una breve resistenza, si arrese. Tra loro c’erano due giovani donne che si erano recate a trovare i mariti ufficiali. Una delle due, Carla Paolucci, era incinta di cinque mesi e lo disse ai suoi giustizieri improvvisati. Ma questo non bastò a salvarla. «Si poteva essere giustizia anche per colpe da poco o inesistenti – evidenzia Pansa – Cito un esempio solo: quello di un gruppo di donne che, per campare, lavorava alle mense tedesche di via Verdi (Torino), cuoche, cameriere, sguattere. I partigiani della Sap le raparono a zero e le rilasciarono. Il giorno successivo furono trovate uccise al Rondò della Forca». Inevitabile quindi la morte per le parenti dei presunti collaborazionisti. Forse per non lasciare testimoni in cerca di giustizia. E’ il caso di Luisa, figlia di un albergatore di Bra il cui hotel, il rinomato Gambero d’oro, fu requisito dai tedeschi, non si sa se con il consenso o meno del titolare (e se avesse espresso dissenso che fine avrebbe fatto?). Fatto sta che «il 26 aprile i partigiani lo arrestarono, insieme alla figlia adottiva, Luisa di 19 anni. Fonti fasciste sostengono che la ragazza fu violentata e poi uccisa con il padre e gli altri alla Zizzola».

GIUSEPPINA, VIOLENTATA E UCCISA A 13 ANNI

Ma c’è una storia che fa rabbrividire. «A Savona, la fine della guerra civile vide esplodere subito un’ottusa barbarie. La mattina del 25 aprile una ragazzina di 13 anni, Giuseppina Ghersi, venne sequestrata in viale Dante Alighieri e scomparve. Apparteneva a una famiglia agiata, commercianti in ortofrutticoli». Non erano nemmeno iscritti al Partito Fascista Repubblicano, ma aveva un parente iscritto cui avrebbe riferito “qualcosa che non doveva vedere”, secondo Pansa, secondo altre fonti in qualità di allieva delle magistrali Rossella era stata premiata per un concorso scolastico direttamente da Mussolini. «I rapitori di Giuseppina decisero subito che lei aveva fatto la spia per i fascisti o per i tedeschi. Le tagliarono i capelli a zero. Le cosparsero i capelli di vernice rossa» si narra nel libro. La condussero in una scuola media di Legino (Savona) adibita a campo di concentramento: «Qui la pestarono e la violentarono. Un parente che era riuscita a rintracciarla a Legino la trovò ridotta allo stremo». Aveva solo tredici anni, tredici! Era in un campo di prigionia dove, ammesso e non concesso che fosse una prigioniera di guerra, in qualche modo avrebbe dovuto essere difesa dalla Convenzione di Ginevra del 1929. Dopo essere stata picchiata e violentata non sfuggì all’uccisione che forse giunse a toglierle dal destino una vita nel ricordo degli orrori. Dei tanti parlamentari uomini e soprattutto donne che si agitano per i diritti dell’uomo a Guantamano non rammento nessuno che abbia mai riaperto la storia della piccola Giuseppina sebbene vi sia una denuncia depositata alla Questura di Savona dal 1949…

AD ALASSIO OCCULTAMENTO DI UNA STRAGE DI DONNE

Vicino ad Alassio i crimini senza senso si perpetrarono fino al 29 maggio. A Stella in località San Martino, furono giustiziate tre donne non più giovani: di loro si conoscono solo nomi ed età, nulla più. D’altronde molte vittime furono tumulate nelle fosse comuni addirittura camuffate. E’ il caso di altre liguri, Maria Naselli, 54 anni, della figlia Anna Maria di 22, e della domestica Elisa Merlo di 35. Furono arrestate a Legino con il capofamiglia Domingo Biamonti di 61 anni, capitano della Croce Rossa, reo di avere un figlio tenente nella San Marco. Furono giustiziati a colpi di mitra al cimitero di Zinola e tumulati in un’unica fossa con una finta lapide: “Qui riposa la salma di Luigi Toso, di anni 84. La famiglia pose”. Un occultamento che prova la consapevolezza dei carnefici di compiere un gesto violento ed illecito, scoperto 4 anni dopo per il senso di colpa dei becchini.

Sterminate anche la moglie e le tre figlie poco più che ventenni di un benestante agricoltore di Lavagnola (Savona). Giuseppina Turchi, la maggiore delle ragazze, pare che fosse legata ad un ufficiale della San Marco. «E come accadeva a molte donne, in quei giorni, la si accusava di aver fatto la spia» nota Pansa. Per questo era stata rapata a zero e poi rimandata a casa. Ma ciò non placò la sete di sangue e vendetta: nella notte tra il 13 ed il 14 maggio, una squadra di armati irruppe nella cascina della famiglia Turchi e uccise tutti (la più giovane morì dissanguata in un bosco), persino il cane.

NELL’ECCIDIO DI SCHIO PER… MOROSITA’

Nel mistero morì Clotilde Biestra, 45 anni, di Loano: imprigionata dai partigiani e scomparsa nel nulla in un giorno imprecisato del maggio 1945. Il motivo? Aveva una nipote ausiliaria che ebbe fortuna di scamparla, nei giorni successivi alla Liberazione, ma fu poi freddata da un killer il 15 gennaio 1946: forse avrebbe potuto testimoniare contro chi aveva deciso l’esecuzione della zia?

Come si è potuto leggere si è trattato di donne inermi, civili, senza implicazioni dirette con una militanza di guerra: uccise perché madri, mogli, sorelle, zie. Nella sola Genova furono 71 le donne uccise tra i 456 civili. Ci furono 15 femmine anche tra le 53 vittime dell’eccidio di Schio (Vicenza) del luglio 1945. Fra i giustiziati anche una casalinga di 61 anni, Elisa Stella, vittima di una vicenda assurda – narra sempre Pansa che fa riferimento anche al libro “L’eccidio di Schio. Luglio 1945: una strage inutile” – Aveva affittato un aloggio a un tizio che, dopo un po’, si era rifiutato di pagarle l’affitto. Alle proteste della padrona di casa l’inquilino moroso, nel frattempo diventato partigiano, pensò bene di denunciarla come pericolosa fascista. La donna fu arrestata, rinchiusa nel carcere di via Baratto e qui finì nel mucchio dei trucidati il 6 luglio».

STUPRATA IN CASA DAVANTI AI TRE BAMBINI E SEPOLTA VIVA

Tra tutte forse la più “colpevole” fu una infermiera di Conselice, Anselma G. di 25 anni. Rea di essere fidanzata con un militare fascista e di aver curato soldati tedeschi. Fu stuprata e poi uccisa con un’iniezione di veleno, forse per una cinica legge del contrappasso… Nel triangolo rosso, nella provincia di Bologna comunista furono ben 42 le vittime del femminicidio tra i 334 civili. Stragi di donne non di rado compiute per «antipatie famigliari, contrasti sul lavoro, ruggini antiche. E anche per faccende del tutto private come storie d’amore finite male o questioni di gelosia» si scrive ne “Il sangue dei vinti” evocando quelle ragioni di “femminicidi” che ai nostri giorni suscitano le reazioni indignate di politici e opinione pubblica ma che allora furono passate sotto silenzio e ancora oggi sono relegate nell’oblio.

Tra di loro ci fu anche Ida, 20 anni, sposata e madre di un bambino: strangolata col fino telefonico insieme ai suoi sei fratelli, tutti colpevoli perché due di loro avevano la tessera del Pfr, e gettata in una fossa comune con altre dieci vittime. Nel Modenese, a Liberazione ormai conclamata, non fu da meno il trattamento riservato al gentil sesso che si ritrovò a pagare una doppia empietà per la sua natura: alla condanna a morte si aggiunse infatti l’empietà dello stupro. Pansa narra di omicidi «che qui non possiamo ricordare neppure in parte. Tutti o quasi senza una parvenza di processo. E spesso preceduti da efferatezze barbariche, specialmente nei confronti delle donne catturate». «Rosalia P., 32 anni, segretaria del fascio di Medolla, il 27 aprile fu presa in casa, violentata davanti al marito e ai tre bambini…», fu poi obbligata a scavarsi la fossa in giardino e «sepolta viva». «Il 2 maggio a Cavezzo, madre e figlia, Bianca e Paola C., vennero seviziate a lungo, sino alla morte. Poco tempo fece la stessa fine un’insegnante cinquantenne che stava cercando notizie sulla scomparsa delle sue amiche di Cavezzo». Come detto in questta narrazione ho volutamente espunto le storie di coloro che, per citare un paragrafo del libro, seppero “Morire da uomini” avendo militato e creduto nel fascismo. Tra loro ci fu anche un’insegnante, sospettata di essere ausiliaria ma di certo terziaria francescana, che lasciò parole toccanti. Angela Maria Tam annunciò così la sua morte in una lettera ad un sacerdote: “Durante tutto il viaggio da Sondrio a Buglio ho cantato le canzoni della Vergine. Ho passato in prigione ore di raccoglimento e di vicinanza a Dio. Viva l’Italia! Gesù la benedica e la riconduca all’amore e all’unità per il nostro sacrificio. Così sia!”».

Per molte ci fu l’onta dello stupro che prima avevano già conosciuto anche le partigiane o staffette catturate dai fascisti. Con macroscopica differenza: per 90 di esse, ausiliarie della Saf, la morte, in molti casi preceduta da inaudita violenza, giunse dopo il 25 aprile, in tempo di pace, ad opera di quei partigiani che liberarono l’Italia proprio dalle violenze e dai soprusi del fascismo e dell’occupazione nazista. Una mobilitazione contro il femminicidio dovrebbe quindi cominciare dal passato, riconoscendo le vittime inermi di una vindice carneficina ideologica che pagarono doppio… Solo perché erano donne.

di Fabio Giuseppe Carlo Carisio

fonte bibliografica: Il Sangue dei vinti di Giampaolo Pansa

fonte giornalistica: Intervista di Fabio Carisio alla sopravvissuta all’eccidio

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