Per transizione di genere, ormai è abbastanza risaputo dai più, almeno rispetto al passato, si intende l’insieme dei comportamenti e delle procedure messe in atto da qualunque persona smetta di vivere secondo quelle che sono le attitudini naturali del proprio genere. Questo passaggio può implicare un percorso psicologico e sociale della persona in oggetto (ad esempio, l’uso di abiti e trucco femminili da parte di un soggetto di sesso maschile), cui può seguire una fase di interventi fisici, farmacologici e infine chirurgici, prima di arrivare alla fase finale del riconoscimento burocratico di un genere diverso rispetto a quello biologico.
Nel dibattito sulla transizione di genere – come dimostra il tour italiano della detransitioner Luka Hein che si è da poco concluso – trova ampio spazio il cosiddetto “approccio affermativo”. Quest’ultimo è previsto nelle linee guida internazionali, ovvero quelle dell’Endocrine Society (Es) e del World Professional Association for Transgender Health (Wpath), oltre alle indicazioni dell’Aifa in materia di farmaci. Si parla, in sostanza, di approccio affermativo quando la transizione non fa parte di una scelta presa da una persona adulta, magari in solitudine, “contro tutto e tutti”, come nella stragrande maggioranza dei casi, avveniva fino a pochi anni fa. L’affermazione di genere implica quasi sempre la minore età del giovane destinato a transizione, con l’appoggio pieno e convinto da parte dei medici e sanitari che lo spingono a tutto ciò, in alcuni casi anche senza il consenso dei familiari, che vengono pian piano “convinti” della bontà di questo percorso. Il tutto, quindi, con la presenza e l’approvazione di équipe di psicologi e medici totalmente dediti a questo tipo di procedure, nonché inclini a considerare la transizione di genere come una scelta sempre e comunque legittima, se non addirittura, appunto, da appoggiare apertamente. In sostanza, quindi, l’approccio affermativo ritiene che nel caso in cui l’incongruenza fra genere percepito e reale, emersa nell’infanzia e persista nel tempo, si può interrompere lo sviluppo del bambino che vive tale incongruenza bloccando la pubertà al suo insorgere, per “guadagnare tempo”, e poter “esplorare” con più calma la propria identità di genere, senza la “minaccia” del corpo che si trasforma rapidamente nella direzione “non voluta”.
Evidentemente apparentato con l’approccio affermativo è il cosiddetto “protocollo olandese”, ideato presso il VU Medical Center alla periferia di Amsterdam, che prevede l’avvio della transizione di genere alla vigilia dell’adolescenza (normalmente poco dopo i 12 anni). Ciò avviene attraverso la somministrazione di farmaci che bloccano gli ormoni relativi al proprio sesso biologico, per poi passare, dopo circa 4 anni, all’assunzione degli ormoni del sesso opposto. In questo modo, i ragazzi e le ragazze possono sottoporsi all’intervento chirurgico per il cambio di sesso dopo il compimento della maggiore età (18 anni in quasi tutti i Paesi occidentali), ma prima possono anche intraprendere altre operazioni chirurgiche, come – tanto per fare un esempio – la singola o doppia mastectomia per le donne, affinché possano eliminare in parte o del tutto il seno.
Tra questi vari step, uno particolarmente controverso che riguarda le terapie farmacologiche assegnate nelle transizioni di genere nei bambini ha a che fare con la somministrazione della triptorelina. Quest’ultima è un farmaco in grado di agire come inibitore della produzione di ormoni maschili (testosterone). Si tratta, quindi, di un bloccante della pubertà in grado di generare infertilità, spesso con effetti irreversibili. Già in tempi non sospetti la triptorelina veniva utilizzata per curare i rari casi di pubertà particolarmente precoce, tuttavia, se n’è iniziato a fare un uso particolarmente massiccio e smodato nella misura in cui è diventata socialmente accettata l’idea per cui un adolescente in fase di confusione sulla propria identità di genere e sui ruoli che essa comporta, debba essere subito avviato alla transizione di genere e non ad una “semplice” terapia psicologica (che nella maggior parte dei casi si risolve in un’accettazione serena del proprio genere sessuale).
Adottata nella maggior parte dei Paesi occidentali (in Italia è stata autorizzata dall’Aifa con determina n. 21756/2019), la triptorelina può provocare effetti collaterali anche molto gravi, quali la fragilità ossea e l’osteoporosi, diminuzione della libido, disturbi del sonno, riduzione della massa muscolare, dolori articolari e, a livello psicologico, ansia, depressione e sbalzi di umore.
Le controversie legate alla triptorelina sono emerse in Italia in particolare all’inizio di quest’anno, quando, a seguito di un’interrogazione parlamentare presentata dal senatore Maurizio Gasparri, è emerso il “caso Careggi”: presso il noto ospedale fiorentino, infatti, il farmaco sarebbe stato somministrato a bambini di nemmeno dieci anni, senza prima passare dall’obbligatorio step di valutazione psicoterapeutica e psichiatrica (come invece prevedono le raccomandazioni dell’Aifa). I trattamenti disinvolti riservati dai sanitari del Careggi ai loro piccoli pazienti, ha determinato l’invio degli ispettori del ministero della Salute presso l’ospedale fiorentino che, di conseguenza, lo scorso maggio, ha sospeso l’utilizzo della triptorelina dai protocolli per i minori.
Come confermato anche da Pro Vita & Famiglia, tuttavia, il Careggi si è limitato a salvare le apparenze. Spalleggiato dalla Regione Toscana, lo scorso giugno, l’ospedale ha ricevuto il via libera all’assunzione di un endocrinologo allo scopo di stabilire il miglior iter diagnostico terapeutico dei pazienti con disforia di genere. Gattopardescamente, quindi, al Careggi tutto è cambiato affinché nulla cambiasse.
Se la transizione di genere avanza così incontrastata anche in Italia, sarebbe facile immaginare quale possa essere la deriva in quei Paesi “all’avanguardia” in tale campo. Uno sguardo più attento alle cronache internazionali, tuttavia, ci rassicura che non è così. In Olanda, ad esempio, il Parlamento ha approvato una mozione per avviare una verifica indipendente sulle prassi e sui trattamenti relativi alla transizione di genere. Da parte sua, la Svezia ha revisionato in senso restrittivo le linee guida per questa pratica sui minori, riconoscendo che i danni sono superiori ai benefici, quindi declassando i trattamenti farmacologici per il blocco della pubertà da “trattamenti medici” a “ricerca clinica”. Significativo anche quanto accaduto in Canada, per la precisione nella provincia dell’Alberta, dove recentemente è stato presentato un disegno di legge finalizzato a “proteggere i bambini dal prendere decisioni irreversibili riguardo alla transizione di genere fino all’età adulta”. Qualcosa si muove, infine, anche negli Stati Uniti, dove lo Stato della Florida ha approvato una legge per proteggere i bambini da farmaci e interventi chirurgici pericolosi e irreversibili legati alla transizione di genere, mentre l’American College of Pediatricians ha pubblicato un documento, in cui, sulla base di oltre 60 studi, viene concluso che la transizione sociale – quindi anche la carriera alias – i bloccanti della pubertà e gli ormoni sessuali incrociati non hanno benefici dimostrabili a lungo termine sul benessere psicosociale degli adolescenti con disforia di genere.
Basterebbero soltanto questi esempi, per incoraggiare il nostro Paese a un ripensamento intorno a certi più che ingiustificati entusiasmi intorno alla transizione di genere per minori. Affinché il “caso Careggi” possa rimanere un caso isolato, destinato a fare scuola ma in negativo.
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