Il concetto di morte cerebrale secondo l’università di Harvard

05332_morte_cerebraleIl concetto di morte cerebrale è stato creato all’università di Harvard per giustificare la pratica dei trapianti e diminuire i costi economici dei pazienti in coma, alias: liberare letti d’ospedale…

Quanto sopra riportato può essere tranquillamente letto dal rapporto dei medici di Harvard cliccando qui.

MORTE CEREBRALE E TRAPIANTO DI ORGANI: UN’AUTOREVOLE VOCE CRITICA

Una conversazione con il prof. Rocco Maruotti, chirurgo di fama internazionale

– La legge italiana n.578, del 29 dicembre 1993, nel suo articolo 1, dichiara che:

“La morte si identifica con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo.” Il parlare di “cessazione irreversibile di tutte le funzioni” di un organo tuttora esplorato e conosciuto in minima parte non significa forse parlare di qualcosa che ha a che fare – per dirla con Karl Popper – più col piano della metafisica che con quello della verificabilità (e falsificabilità) sperimentale? Non dovrebbe lo stesso criterio della cosiddetta “morte cerebrale” apparire palesemente improponibile in sede scientifica ?

La legge italiana ha recepito la morte di Harvard – conosciuta come morte cerebrale – sulla base di due fattori: l’eccitazione popolare per i trapianti e la spinta di parte della comunità medica per cambiare quello che per centinaia di migliaia di anni era stato il fondamento sacrale, umano ed universalmente accettato della fine della vita e quindi della morte. La classe medica ha riposto generalmente fiducia nel dogma stabilito dagli esperti di Harvard, allo stesso modo con cui i chirurghi ripongono la loro fiducia in quel che fanno, ad esempio, i colleghi anestesisti o ortopedici.

La Commissione della Harvard University era stata incaricata di definire la morte in chiave neurologica con lo scopo principale di evitare accuse legali alle équipes che cominciavano a fare la gara dei trapianti. I motivi espressamente addotti per definire come morte il coma considerato irreversibile erano e sono esclusivamente utilitaristici: liberare letti d’ospedale, alleviare il peso sociale dei pazienti in stato vegetativo, reperire organi da trapiantare senza il rischio di accuse legali e etiche alle équipes chirurgiche.

In sede scientifica, sulla morte di Harvard sono così stati scritti migliaia di libri e di articoli e sono stati fatti centinaia di congressi, meetings, trasmissioni televisive, articoli di giornale quasi esclusivamente ad opera di persone con generalizzato conflitto di interesse. Ancor oggi è in atto una corsa per ridefinire sempre più arbitrariamente la morte per l’interesse esclusivo del business dei trapianti e, ovviamente, di coloro che chiedono un ricambio di organi da estranei.

– Questo comporta, allora, che il soggetto umano destinato ad essere espiantato è “morto” soltanto per mera convenzione?

È evidente che nessuno, al di fuori della coorte dei trapiantisti, considererebbe i pazienti in morte di Harvard come persone defunte. La prova era ed è che nessuno, compreso i trapiantisti, avrebbe, ad esempio, il coraggio di mettere in una bara una figlia che respiri sia pure assistita, che abbia il cuore e il polso che battono, che abbia la cute rosea e calda, e che magari possa condurre a termine una gravidanza. È evidente che tali persone non sono cadaveri e che, d’ altra parte, espiantare gli organi dai veri cadaveri è del tutto inutile al fine dei trapianti. Per questo recentemente è stato proposto di chiamare “finestra di espiantabilità” il tempo che un paziente vive tra un incidente e la morte vera e propria, onde evitare di cadere nell’assurdo scientifico della morte cerebrale di Harvard.

Tuttavia, già venti anni fa, nel 1992, l’articolo di Truog della stessa Harvard minava alle basi il concetto di morte cerebrale. Il testo dell’articolo “Rethinking brain death” (Ripensamento della morte cerebrale) afferma testualmente: “Proponiamo quattro argomenti a sostegno del parere che i pazienti che rispondono agli attuali criteri clinici della morte cerebrale, non necessariamente presentano la perdita irreversibile di tutte le funzioni del cervello. In primo luogo, in molti pazienti clinicamente in morte cerebrale è conservata la funzione endocrina-ipotalamica. In secondo luogo, in molti pazienti è conservata l’attività elettrica cerebrale. In terzo luogo, alcuni pazienti conservano la capacità di reagire agli stimoli dell’ambiente. In quarto luogo, il cervello è definito fisiologicamente come sistema nervoso centrale, e in molti pazienti clinicamente in morte cerebrale è conservata l’attività del sistema nervoso centrale, sotto forma di riflessi spinali. Questi risultati sono in netto contrasto con il requisito di una cessazione irreversibile di tutte le funzioni cerebrali”. La conclusione della ricerca scientifica fu che non esistono mezzi strumentali atti a dimostrare la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo, quindi neanche l’elettroencefalogramma o altri test sono in grado di accertare la cessazione irreversibile di ogni attività encefalica, men che meno il letale test dell’apnea. Lo stesso Truog ribadì con ancora più forza le sue tesi nel 1998.

– Ma, allora, come è possibile che si continui a parlare, con toni tanto rassicuranti, di prelievo “da cadavere”?

Da circa venti anni i bioeticisti dalle varie Università si sono spinti a stilare nuove definizioni della morte ritenute necessarie per continuare l’attività trapiantistica e sempre sulla base del principio del procacciamento di organi da pazienti “as legally dead as necessary, as biologically alive as possibile” (morti legalmente quanto necessario, vivi biologicamente il più possibile). In pratica la morte viene sempre più ridefinita non come assenza irreversibile di tutte le funzioni cerebrali, ma come, ad esempio, cessazione di rapporti con il mondo.

Nel Report of the President’s Council on Bioethics vi sono scienziati che affermano “Findings totally undermine the current neurological death standard, which treats the brain as key to integrating and sustaining basic physical processes. Since these processes continue in the absence of brain function, doctors are confronted with three choices: 1-remove organs from a person still technically alive; 2-loosen the standards of brain death; or 3-revert to the old-fashioned standard of cardiac death.” (“I risultati minano totalmente l’attuale standard di morte neurologica, che considera il cervello come la chiave per integrare e sostenere processi fisici di base. Dal momento che questi processi continueranno, in assenza di funzioni cerebrali, i medici si confrontano con tre scelte: 1- prelievo di organi da una persona ancora tecnicamente in vita; 2- allentare gli standard di morte cerebrale; o 3- tornare al vecchio standard della morte cardiaca”.)

La scelta attuale del business dei trapianti è quella di allentare sempre più gli standard, ma si profila la necessità di ammettere che il paziente viene ucciso.

Da un punto di vista popperiano, quindi, per tornare alla sua domanda iniziale, la morte di Harvard è stata falsificata apertamente dai suoi stessi sostenitori. Parlando recentemente all’American Society of Bioethics and Humanities a Minneapolis Neil Lazar, del Toronto General Hospital, Maxwell J. Smith della University of Toronto e David Rodriguez-Arias della Basque University hanno affermato che è più importante sapere che i pazienti in morte di Harvard sono in condizioni “confortabili” e “senza rischi” piuttosto che se siano vivi. Essi hanno sottolineato l’ambiguità di determinare la morte indipendentemente dai criteri cerebrali e cardiaci: “Cardiac death” (DCD) could be reversible and “brain death” is not always verifiable. (“La morte cardiaca può essere reversibile e la morte cerebrale non è sempre verificabile”) . Hanno perciò concluso che la “regola del paziente morto” dovrebbe essere abbandonata, malgrado ciò sembri macabro a tutti! In effetti, oggi abbiamo una crudele medicalizzazione anche del processo della morte che non è più protetta, serena, confortata dai parenti. Oggi la morte di Harvard viene preceduta da una agonia artificialmente prolungata, da inutili e controproducenti indagini volte non ad aiutare il paziente, ma a garantire sia la certificazione anticipata di morte sia il suo contrario che è la vitalità biologica degli organi. Insomma, oltre al danno di un incidente e della morte, anche la beffa e la crudeltà di una terribile agonia e di una disumana macellazione nell’interesse del business dei trapianti.

– Che senso ha, allora, continuare a parlare di “irreversibilità”?

Le posso assicurare che molti dei più autorevoli esperti confermano, se pure ce ne fosse stato bisogno, che l’irreversibilità è solo il trucco di una tetragona ostinazione del mondo degli espianti e della comprensibile ma errata richiesta di leasing di vita da parte di coloro a cui viene data l’alternativa: trapianto o morte.

Autore: Roberto Fantini / Fonte: flipnews.org

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