IL RISPETTO PER LA DONNA E PER …CHIUNQUE

montanhaI recenti fatti di cronaca, che vedono per protagoniste (vittime) molte donne, impongono una seria riflessione circa le cause che possono portare al compimento dei crimini nei loro confronti. Di fronte a tale riflessione non dovrebbe esimersi nessuno che voglia usare la coscienza.

Molti parlano della necessità di intervenire precocemente sui bambini (attraverso un’educazione al rispetto – tra maschi e femmine), affinché – già nelle scuole – questi imparino a convivere secondo una convivenza reciprocamente rispettosa. Questa, a detta di molti, potrebbe essere la soluzione e la ricetta culturale che un domani potrebbe evitare il ripetersi dei fatti che attualmente ci stanno sconcertando.

Ma è sicura tale ricetta? Basterà parlare un po’ di rispetto affinché un domani i bambini e le bambine di oggi rispettino le donne e gli uomini di domani?

Certamente parlare del concetto del rispetto delle persone altre da noi fa bene, ma temo che il semplice parlare potrebbe non sortire gli effetti sperati, visto che:

  1. I bambini potrebbero dimenticarsi quanto loro detto durante un semplice “corso” sul rispetto;
  2. Nonostante i corsi che si potrebbero fare chi può assicurare che questi punteranno verso i principi più essenziali e adatti a far si che nei bambini resti qualcosa che ne guiderà la condotta sin quando saranno diventati grandi (insomma una sorta di principi assoluti, che valgano da bussola e da riferimento per la condotta presente e futura dei soggetti che dovessero riceverli)?
  3. E a coloro che non sono ormai più bambini (gli adolescenti, i giovani, gli adulti e persino gli anziani) chi parlerà dell’importanza del rispetto del prossimo (visto che,  a quanto pare, le cronache ci dicono che, nonostante la crescita e l’età di molte persone – che per via del tempo dovrebbero  essere ormai mature – queste non hanno ancora assimilato veramente cosa significhi il rispetto degli altri (dove per ‘altri’ non dobbiamo immaginare soltanto gli estranei o coloro che sono lontani da noi (ossia gli sconosciuti), ma coloro che sono a noi vicini (i figli, i genitori, le fidanzate, le mogli o i mariti, i nonni e i nipoti))?

La riflessione sulla quale vorrei soffermarmi a proposito di quanto stiamo dicendo è la seguente:

Qual è una delle motivazioni di fondo riguardo ai maltrattamenti che certi uomini compiono nei confronti delle donne?

Certo le motivazioni che possono stare dietro ai maltrattamenti delle donne potrebbero essere molte, ma credo che ce ne sia una che sta sullo sfondo di molte di esse. Mi riferisco alla motivazione che si basa sul pensiero per cui spesso gli uomini coniugati o comunque sentimentalmente legati (e lo stesso vale per le donne coniugate o sentimentalmente legate) potrebbero pensare che le proprie compagne siano appunto… proprie. Mi spiego: probabilmente molti uomini pensano che le proprie mogli siano di loro proprietà; siano qualcosa di proprio, di cui disporre…a proprio piacimento, facendone ciò che si vuole.

Ripeto, questa idea non sarà l’unica che sta alla base dei numerosi maltrattamenti che gli uomini potrebbero infliggere alle “proprie donne”, ma di certo essa è una di quelle motivazioni da considerare quando si cerchi di capire cosa può spingere gli uomini a fare del male alle “proprie compagne”.

E se forse qualcuno si chiede quale legame vi sia tra l’idea del possesso e quella del rispetto, vorrei dire (a questo qualcuno) che se imparassimo a capire e a pensare che il nostro prossimo (anche se questi fosse la moglie o il marito, l’amica o l’amico, la fidanzata o il fidanzato) non è una nostra proprietà impareremmo anche a capire che non potremmo disporne in modo assoluto!

Per quanto l’intimità possa rendere due persone talmente vicine tanto da formare un sorta di tutt’uno, resta il fatto che le due persone sono, appunto, pur sempre due persone; l’intimità può rendere due persone non estranee, ma non annulla il fatto che la dignità e l’individualità delle due persone debba rimanere integra e preservata. L’intimità salvaguarda il rispetto dell’altro; non lo elimina.

Quando qualcuno pensa che l’altro/a possa divenire una proprietà personale non può appellarsi onestamente all’intimità, ma al possesso (o alla possessione).

Nell’intimità ci si dona. Col possesso, invece, si prende e pretende la relazione.

L’intimità è dono. La proprietà, invece, non si basa sul dono, ma sull’idea di comprare per possedere. Ora, la vera intimità non si può comprare. Essa nasce e si realizza se vi è la capacità e la volontà di donarsi. Qualora la volontà di donarsi all’altro manca, vuol dire che c’è qualcosa che impedisce la nascita della vera comunione e del vero rispetto. Purtroppo alcuni quando manca questo “elemento”, che può generare la comunione e il rispetto, pensano di dover creare tale comunione con la forza, immaginando che la comunione dell’intimità debba e possa conquistarsi con la forza.  Da qui nasce l’idea della violenza, per prendere ciò che non si riesce a possedere. Il ricorso alla violenza (per cercare di avere l’intimità) dipende dal fatto che l’altro (dal quale e col quale si vorrebbe l’unità) non si dona a noi. In effetti il senso del donarsi (all’altro) e quello del prendere con la forza ciò che l’altro non ci dona sono due cose completamente diverse.

L’amore e l’intimità “dovrebbero” essere dei doni, da “conquistare” non con la forza.

Coloro che non sanno come ottenere tali doni, allora pensano di prenderseli a modo proprio (e spesso nel modo sbagliato).

Quale sarebbe, infatti, il modo giusto per ottenere l’intimità, il rispetto, l’affetto, l’aiuto, la riconoscenza dell’altro/a?

“Se” l’ottenimento di queste “cose” dipende dalla volontà dell’altro di donarsi a noi, è intuibile che tali “cose” e tali doni non si riusciranno ad ottenere per mezzo della violenza, ovvero attraverso qualche forma di coercizione.

Quando si cerca di ottenere un dono al di fuori ed al di là della sua intrinseca natura (la spontaneità), ammesso che lo si riesca ad “ottenere”, in realtà non lo si sta ottenendo: ciò che è preteso con la forza non è un dono, perché manca della volontà da parte del donatore di donarci ciò che noi cercheremmo e vorremmo da lui. Usare la forza significa non considerare che colui dal quale diciamo di volere un dono in realtà non intende darci ciò che vorremmo da lui.

Ricorrere alla forza significa alterare la relazione di vera intimità: in cui due soggetti si donano e donano all’altro ciò che ognuno sa ed intuisce che l’altro si aspetta come dono. La violenza, insomma, esclude l’altro, la parte che spetta all’altro, ossia la volontà di donarsi. La violenza vuole prendersi ciò che l’altro non vuole (o non sente) di donare.

Quando si dice che qualcuno è spinto ad usare una violenza cieca, si dice – a ragione – che colui/colei che usa la violenza non si rende conto (perché non vede) che manca qualcosa nel suo rapporto con l’altro, visto che l’altro non intende donargli quell’intimità, quel dono (di dedizione, di cura, di affetto, di stima, di gratitudine) che egli – in quanto privato di tali cose – arriva a pretendere.

Cosa quindi non vede chi è “costretto” a ricorrere alla violenza? Ciò che il violento (ed il violentatore) non vede è che l’intimità (di cui egli dice di avere bisogno) è un dono, un dono che non può essere preteso, ma soltanto ricevuto (non come frutto di pressioni, ma come segno di riconoscimento per il bene che a sua volta egli avrà fatto a colui/colei dal quale/dalla quale potrà ricevere per ciò (ossia per il bene già fatto) il dono della riconoscenza.

Insomma, la vera intimità si basa e si fonda su una donazione reciproca. La violenza è la forma (sbagliata) a cui ricorrono, invece, coloro che pensano di costruire un’intimità che possa fare a meno di un rapporto reciproco. In altre parole i violenti pretendono di avere ciò che l’altro/l’altra non vuole loro donare: l’amore.

Ciò che il violento “non vede” è che nei suoi rapporti (malati, perché non più giusti e spontanei) finiscono per venir meno gli elementi fondamentali: l’amore e la grazia.

Il violento finisce per pretendere ciò che non andrebbe preteso.

Se gli uomini (in generale, come genere umano e, quindi, anche le donne) imparassero che l’amore è frutto di un dono, non cercherebbero di ottenerlo in qualsiasi modo, ma nel solo modo in cui esso può essere ottenuto: l’amore si riceve donandolo. Ovvero? Ama se (un giorno…non automaticamente, né per calcoli) vuoi essere amato.

Enzo Maniaci | Notiziecristiane.com

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