Il sintomo e la rottura dell’equilibrio

Il professionista della salute mentale, psichiatra, psicologo, psicoterapeuta che sia non può non riconoscere l’impostazione delle richieste che chiede il suo cliente.

Risolvere un problema di relazione, matrimoniale, alleviare dei sintomi, affrontare dei disagi di vita ecc. C’è, nella richiesta del cliente, sia un esplicito che un implicito. L’esplicito è il problema, il sintomo, la disfunzione da curare, debellare, eliminare e a seconda della impostazione teorica di riferimento del professionista si oscilla tra la cura psicofarmacologica e la cura psicoterapica considerando, implicitamente, il problema presentato come sintomo. L’implicito è la considerazione della vita, la propria visione del mondo, la propria impostazione di credenze e di fede.

Da psicologo, psicoterapeuta e da cristiano mi chiedo quale impatto possa avere il soffermarsi sull’implicito che considerare il problema-sintomo in una visione più ampia dell’esistenza dell’altro. Il sintomo come rottura dell’equilibrio tra l’uomo e la natura, tra l’uomo e il creato, tra l’uomo e il suo creatore. Riscoprire la propria responsabilità di fronte al creato ed essere egli stesso creatore di un mondo veramente umano tramite il discernimento della scelta tra il bene e il male: «Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male» (Dt 30,15). Sta all’uomo, quindi, rileggere il senso del sintomo, del problema in una visione più ampia della sua esistenza che contempli il creato di cui fa parte.

Ognuno è parte di un sistema, e una realizzazione di se non può prescindere dal non considerare il contatto-armonia con il sistema. Entro questa visione il problema è allo stesso momento sintomo e simbolo di un’armonia che si rompe, si infrange nel momento che si perde il senso della propria vita. Nel momento che viene meno la propria vocazione alla vita (P. Riccardi Ogni vita è una vocazione per un ritrovato benessere. Ed. Cittadella Assisi 2014). Ognuno è chiamato, responsabilmente, a dare risposta alla propria vita. Il problema è che spesso la risposta non si pone in funzione di un bene comune che armonizzi l’io con l’altro, il me con il te. E’ spesso la manifestazione egoista di una ricerca di un piacere personale, effimero che non niente conto della realtà dell’altro. L’accento della richiesta cade sull’Io sto male, Io non mi sento compreso, Io ho bisogno, Io, Io e Io. Un Io che non tiene conto della realtà dell’altro prima o poi ne paga le conseguenza con una chiusura percepita come causa di malessere.

«Nessuno di noi, infatti, vive per se stesso e nessuno muore per se stesso» (Rm 14,7).

Pasquale Riccardi D’Alise

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