La nostra risposta alle pandemie: 4 lezioni dalla storia della chiesa

Come fu possibile che il periferico e semi sconosciuto movimento cristiano diventasse in pochi secoli la forza religiosa più importante del mondo occidentale?

Questa domanda fa da sottotitolo al libro The Rise of Christianity di Rodney Stark, il quale esplora a tal proposito una serie di fattori chiave tra cui spiccano le pandemie. Effettivamente, per comprendere l’ascesa di questo ‘periferico e semi sconosciuto movimento ’ ci occorre comprendere la sua significativa risposta alle epidemie.

Di seguito parlerò brevemente di quattro storiche pandemie e di quale fu la reazione della chiesa sulla traccia del modello di Cristo. Sulla base del loro esempio, lasciamoci ispirare dalla loro fede anche se ciò dovesse comportare alcune modifiche sul nostro modo di agire nella nostra epoca e nelle nostre circostanze. La naturale spinta verso il bisognoso che riscontriamo nei primi cristiani, così palese nel loro eroico sacrificio, è completamente permeata dall’esempio di Cristo; oseremo essere meno sacrificali nell’amore che miriamo ad incarnare?

Allo stesso tempo, la consapevolezza che un atteggiamento del genere, oggigiorno, possa rendere noi stessi veicoli dell’infezione, ci deve costringere ad un’attenta riflessione. Quando guardiamo a questi esempi storici, lasciamo che sia lo Spirito Santo a guidarci verso una loro corretta applicazione. E tuttavia, nonostante ciò, lasciamo che i nostri spiriti siano smossi e sospinti verso la fede, la speranza e l’amore. Che il mondo assista alla manifestazione della saggezza e dell’atteggiamento di Gesù tramite le nostre vite durante questa nostra moderna pandemia.

  1. Dionisio, Vescovo di Alessandria

Nel 260 d.C., durante l’impero di Marco Aurelio, scoppiò un’epidemia (qualcuno ritiene si trattasse del vaiolo). Nell’arco di quindici anni essa uccise da un quarto ad un terzo dell’intero Impero Romano. Stark stima che all’epoca ci fossero circa 45 mila Cristiani, solo lo 0,08% dell’impero. Malgrado i numeri, la loro reazione a questa pandemia si guadagnò l’ammirazione dei contemporanei ed un seguito ancora più rilevante.

Dionisio, vescovo di Alessandria, riportò:

Moltissimi nostri fratelli Cristiani mostrarono un amore ed una lealtà senza riserve, pensando soltanto ad aiutare il prossimo senza risparmiare sé stessi. Noncuranti del pericolo, si presero cura dei malati, facendo fronte a qualunque loro bisogno, servendoli in nome di Cristo e salutando questa vita serenamente gioiosi; perché essi stessi furono contagiati dagli altri, caricando su di sé la malattia dei loro vicini ed accettando di buon animo il loro dolore. Molti, assistendo e curando gli altri, presero su di sé la morte altrui, perendo in loro vece.

L’evidente cristianità di questo gesto (prendere su di sé la morte riscattando la vita altrui) si ergeva davanti agli occhi di coloro che erano esterni alla chiesa, come stridente paradosso. Dionisio continua:

Ma fra i pagani era tutto ribaltato: essi abbandonavano coloro che manifestavano i primi segni della malattia, fuggendo perfino dai propri amici più cari. Schivavano ogni forma di partecipazione alla sofferenza e alla morte dalle quali, tuttavia, difficilmente riuscivano a sfuggire, malgrado tutte le loro precauzioni. (Eusebio, Eccl. Hist. 7.22.7-10)

Le epidemie intensificano il naturale corso della vita. Esse intensificano il nostro senso di mortalità e fragilità ma anche le opportunità di manifestare un amore incondizionato, contro la tendenza e la cultura del momento. La chiesa colse la sfida di quel secolo guadagnando sia ammiratori che convertiti. Una dinamica simile entrò in gioco un secolo più tardi.

  1. Cipriano, Vescovo di Cartagine

Stark crede che la popolazione cristiana nel 251 d.C. contasse poco meno di 1,2 milioni di persone, ovvero l’1,9% dell’intero impero. Si tratta di un aumento incredibile rispetto al secondo secolo, sebbene la chiesa rappresentasse soltanto una piccola minoranza all’interno dell’impero. Contro ogni pronostico, comunque, una nuova pandemia contribuì all’avanzata della chiesa.

Questa epidemia fu differente (forse si trattò di morbillo, ma non ne abbiamo la certezza), ma il tasso di mortalità fu altrettanto alto che quello del secolo precedente. Diverse città d’Italia furono abbandonate, alcune per sempre. Le infrastrutture militari e romane subirono un massiccio indebolimento. Eppure, ancora una volta, i Cristiani risplendettero in mezzo a questa prova.

Cipriano, vescovo di Cartagine, lo spiegò così:

Quanto opportuno, quanto necessario è che questa epidemia e pestilenza, la quale sembra orribile e mortale, scandagli la mente di ogni singolo uomo ed esamini la giustizia dell’intera umanità, rivelando se ci sia una reale cura del malato, un reale e coscienzioso amore per i propri congiunti, come si dovrebbe… un reale desiderio da parte dei medici di non abbandonare a sé stessi gli afflitti.

Le epidemie ci ‘esaminano’. Esse mettono in luce se il nostro motore sia la carne (l’istinto di auto-conservazione) oppure lo Spirito (il dono sacrificale). La pandemia del terzo secolo trovò nella chiesa un popolo ripieno di Spirito, desideroso di camminare sulle orme del proprio Maestro.

Il tasso di mortalità fra i Cristiani fu significativamente inferiore rispetto a quello generale della popolazione (forse soltanto il 10%, malgrado la parola “soltanto” rappresenti in contesti simili un avverbio terribile). La reciproca carità dei fratelli e delle sorelle in Cristo comportava, sotto un certo punto di vista, che coloro che provvedevano cura e assistenza fossero esposti ad un maggiore rischio di infezione ma, in ultima analisi, i credenti contagiati ebbero un tasso di sopravvivenza maggiore. Rendendosi vulnerabili, questi Cristiani avevano di fatto trovato la vita. Una volta che l’epidemia fu spazzata via, i Cristiani si ritrovarono ancora più forti. Più forti come presenza all’interno della società, dal momento che la maggioranza di essi era sopravvissuta, rivelando una resilienza maggiore in virtù di una solida speranza dinanzi alla morte. Più forti anche a livello comunitario, avendo forgiato dei legami ancora più saldi attraverso le sofferenze che avevano affrontato.

Se vuoi sapere come fu possibile che il Cristianesimo passasse dall’essere un movimento semi sconosciuto e periferico all’essere rappresentato da circa 6 milioni di credenti dal 300 d.C., Rodney Stark vi risponderà così: le epidemie furono un fattore determinante.

  1. Martin Lutero, Wittenberg

Dal XIV secolo in avanti, la Morte Nera infestò l’Europa. In cinque anni spazzò via fino alla metà della popolazione, colpendo in particolare le aree urbane. Nei secoli seguenti si susseguirono altri focolai, tra cui la peste che colpì Wittenberg nel 1527. Molti fuggirono, ma Lutero e sua moglie Katharina, allora incinta, rimasero per prendersi cura dei malati, facendo del passo di Matteo 25:41-46 il loro stendardo e affermando:

Dobbiamo attenerci alla parola di Cristo: “Ero infermo… e non mi visitaste.” Secondo questo passo siamo legati in modo tale gli uni agli altri da non poter in alcun modo abbandonare il prossimo all’ angoscia, bensì ci ritroviamo costretti ad assisterlo e ad aiutarlo come vorremmo che fosse fatto a noi.

Lutero parlava di circostanze in cui la fuga era ammissibile e, sempre consapevole dell’umana propensione all’auto-giustificazione, esortò i Cristiani a non giudicarsi gli uni gli altri in caso avessero preso decisioni differenti. Scrivendo riguardo al proprio impegno, però, sottolineò:

Siamo rimasti soli con i diaconi, ma anche Cristo è qui presente, sicché non siamo davvero soli. Egli trionferà in noi sul serpente antico che è omicida e autore del peccato, per quanto a lungo egli possa ferire il calcagno di Cristo.  Pregate per noi, un caro saluto. (Lettera datata il 19 agosto 1527)

È bene notare che sia Cristo che Satana incombono nel pensiero di Lutero. Satana è l’omicida fin dal principio (Lutero si riferisce a Genesi 3:15), ed è lui che si nasconde dietro la peste.

Tuttavia, Cristo è molto più potente, e molto più coinvolto. Egli è in coloro che si prendono cura degli altri, Egli è (Matteo 25) in coloro che sono ammalati, ed Egli è, soprattutto, nella vittoria che la chiesa sperimenterà sopra il diavolo: una vittoria che include perfino la più piccola ‘salvezza’ rappresentata dalla guarigione dalla peste. Lutero e Katharina sopravvissero, e la via di Cristo fu rivendicata in questa dura prova.

  1. Charles Spurgeon, Londra

Intorno al 1850, Londra era la più potente e ricca città del mondo, con una popolazione che superava i due milioni di persone. Nel 1854, un focolaio di colera scatenò il terrore nei cuori dei Londinesi.

Charles Spurgeon, il quale al tempo aveva solo vent’anni, giunse nella capitale per fare da pastore alla New Park Street Chapel. Avrebbe guardato indietro ai giorni di questa epidemia come un insegnamento cruciale sia per sé stesso che per la città.

Se può esserci un tempo in cui la mente è particolarmente sensibile, è quando la morte scavalca il confine. Ricordo bene, la prima volta che giunsi a Londra, quanto la gente ascoltasse ansiosamente il vangelo, perché il colera imperversava terribilmente. C’era ben poco di cui beffarsi, allora.

Egli racconta poi la storia di quando aveva fatto visita ad un uomo morente che, tempo prima, gli si era sempre opposto fermamente:

Quell’uomo, nel corso della sua vita, aveva sempre avuto l’abitudine di schernirmi. Con parole pesanti mi aveva spesso definito un ipocrita. Non fu prima di essere stato colpito dai dardi della morte che egli ricercò la mia presenza e il mio consiglio, sentendo nel proprio cuore che di certo ero un servo di Dio, sebbene non riuscisse ad ammetterlo con le labbra.

Le sabbie mobili di questo mondo sono una realtà costante, ma spesso occorrono le tempeste per rivelarcelo chiaramente. Spurgeon vide le epidemie del suo tempo come una tempesta capace di condurre molti a cercare rifugio in Cristo, la Roccia.

Che dire dei nostri tempi?

Ci sono molti fattori che distinguono nettamente la nostra epoca dalle altre. Prima dell’avvento degli ospedali moderni, non c’era un sistema di cura specializzato e professionale. In più, le generazioni precedenti si prendevano cura degli ammalati con scarse o errate nozioni riguardo alle trasmissioni delle malattie. Oggi sappiamo che coloro che prestano assistenza possono essere portatori della malattia, perfino se asintomatici. In simili scenari, l’auto-isolamento può essere l’azione più amorevole da compiere, di gran lunga preferibile al rischio di contagiare coloro ai quali stiamo cercando di portare amore. Ad ogni modo, sebbene la manifestazione dell’amore possa rivelarsi in modi diversi a seconda delle epoche, esso deve sempre restare l’obiettivo centrale: un amore guidato dallo Spirito Santo, non dall’egocentrismo della nostra carne.

Possiamo, pertanto:

Evidenziare le sabbie mobili del mondo (la debolezza della nostra carne, l’incertezza delle economie, la nostra comune mortalità).

Predicare e stimare Cristo come la Roccia, sapendo che soltanto Lui può dominare le tempeste, e soltanto Lui lo farà.

Amare i nostri prossimi e muoverci, in Cristo, verso coloro che sono nel bisogno.

Possa Dio essere nuovamente soddisfatto nell’operare attraverso questa prova, glorificando il nome di Cristo ed espandendo il Suo regno.

Nota degli editori: queste quattro lezioni sono state tratte da un video prodotto da Glen Scrivener, che propone altri tre esempi provenienti dalla storia della chiesa che riguardano il modo in cui i Cristiani hanno perseverato nell’affrontare le epidemie.

Traduzione a cura di Eugenia Andrighetti

di Glen Scrivener | Coramdeo.it

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