La parola della vita manifestata in carne… Il prescritto della 1 lettera di Giovanni.

La prima Lettera di Giovanni si apre con un prescritto epistolare, cioè con un breve prologo, che appare formalmente atipico rispetto alla tradizione epistolare neotestamentaria per la mancanza del nome del mittente, il riferimento dei destinatari e l’augurio.

Sintatticamente evidenzia un periodare complicato, caratterizzato da una serie di proposizioni relative, sostenute dalla proposizione principale “noi lo annunciamo” e la conseguente proposizione finale “affinché abbiate comunione con noi” e da continue ripetizioni. Si noti anche l’uso di verbi sensoriali (udire, vedere, toccare), tesi a sottolineare la veridicità e l’autenticità della testimonianza e l’annuncio evangelico.

Essendo privo del nome del mittente ci si chiede: chi è l’autore? Analizzando attentamente il testo si arguisce che l’estensore della lettera è un testimone oculare dei fatti accaduti, concernenti la persona, l’opera e l’insegnamento di Gesù. Non solo, il linguaggio teologico del prescritto è molto simile al prologo dell’evangelo di Giovanni, per i quali indizi si può dedurre che l’autore sia Giovanni, il discepolo prediletto di Gesù.

Detto questo, cerchiamo prima di districare il complicato groviglio sintattico e poi ci addentreremo nel cuore del messaggio teologico giovanneo.

Il verbo principale del v. 3 “apangellomen”, “noi annunciamo, noi proclamiamo”, chiarifica il tema principale del prescritto, gettando luce a tutto quello che sarà esposto nel corso della lettera: l’annuncio apostolico evangelico. Esso è preceduto da una serie di proposizioni relative coordinate, e da un costrutto posto in parentesi( oppure tra le lineette), ripetitivo dei concetti precedenti, rafforzando la pretemporalità e la temporalità della “Parola della Vita”, e “la Vita eterna” e dalla ripetizione delle proposizioni relative, a mo’ di riassunto, “quello che abbiamo veduto e udito”. La fine del v. e il v.4 enfatizzano lo scopo della predicazione apostolica: la comunione e la sua compiutezza.

Teologicamente, il prescritto usa un linguaggio molto vicino al Prologo giovanneo, se non addirittura richiama il primo versetto della Genesi. Tuttavia, può avere anche un richiamo al contenuto dell’evangelo e all’inizio del ministerio di Cristo, che fu l’inizio dell’era cristiana.
Tuttavia, dal linguaggio teologico espresso nel prescritto (1^ Giov. 1:1-4) si ha l’impressione che Giovanni faccia riferimento essenzialmente alla Parola preesistente, che stava di fronte al Padre: il Figlio eterno era prima della sua manifestazione storica, ricorrendo all’espressione teologica contenuta nel costrutto parentetico, “la vita era presso il Padre”. In entrambi le frasi il verbo è all’imperfetto, esprimendo la preesistenza eterna del Figlio (“Quello che era nel principio”, “la Vita eterna, che era presso il Padre”).

Nel proseguo delle proposizioni relative, è enfatizzato il mistero dell’incarnazione della Parola eternamente preesistente. La Parola entra nel tempo e nella storia umana, manifestandosi agli uomini (cfr. Giov. 1:14): essa diventa carne e manifestò se stessa ai tre sensi dell’uomo, quello dell’udito, quello della vista e quello del tatto: l’udire, il vedere trovano la loro sublime conclusione con il toccare, con il significato di “esaminare da vicino”. Tuttavia, è il vedere come azione sensoriale su cu è posto l’accento che determina la testimonianza. Tra i due verbi greci usati per vedere, quello che esprime contemplazione assume una peculiare nobiltà sensoriale per la profonda ed estatica meraviglia che suscita la Parola incarnata e risuscitata. (cfr. Giov. 1:14). La percezione udibile, visibile e tangibile di Colui che era nel Principio, è stata possibile agli uomini, perché la Parola della Vita era stata manifestata.

Perché Giovanni insiste sulla manifestazione storica di Cristo, agli orecchi, agli occhi e alle mani degli uomini?

Le Chiese asiatiche dell’odierna Turchia erano fortemente turbate da predicatori itineranti, che cercavano di imporre la teologia eretica del Docetismo. Erano i seguaci di Cerinto, un vescovo siriano contemporaneo di Giovanni. Ad essi il messaggio dell’incarnazione dell’eterna Parola preesistente dato da Giovanni giunge autorevolmente per l’efficacia della testimonianza apostolica. I Cerintiani ponevano una distinzione fra Gesù e il Cristo, fra lo storico e l’eterno. Ma Gesù e Cristo è la stessa persona, Dio e Uomo.

Il risultato dell’autorivelazione di Dio in Cristo è la testimonianza e l’annuncio.

Chi è il gruppo con cui Giovanni si identifica, a cui è affidata la testimonianza e l’annuncio. Il “noi” si riferisce quasi sicuramente al gruppo apostolico, e non a un gruppo o “scuola giovannea” fondata da Giovanni. Il gruppo apostolico è il solo testimone oculare degli eventi occorsi intorno al mistero di Gesù. L’azione del testimoniare implica una esperienza diretta di chi parla dell’evento testimoniato. Non è “colui che parla per sentito dire”, perché ha visto, udito, contemplato e toccato.

Essendo testimoni oculari, sono anche araldi dell’evento testimoniato, investiti di questa autorità da Colui che è testimoniato, Gesù Cristo.

Infatti, Giovanni possiede i requisiti del testimone oculare e dell’essere investito di autorità da Gesù nell’annunciare l’incarnazione della Parola preesistente.

Egli ha udito, ha visto, contemplato e toccato il Signore Gesù, egli è un suo testimone oculare, lo annuncia con autorità. Sostanziato dalla testimonianza oculare e dall’annuncio autorevole, il messaggio cristiano si sottrae alla speculazione filosofico-religiosa e si propone come una affermazione dogmatica proferita da coloro abilitati a farlo per la loro esperienza e il loro mandato.

Tuttavia, l’annuncio non è fine a se stesso.

A cosa tende l’annuncio? Quali finalità si propone?

Annunciare l’Evangelo vuol dire creare una Comunità pervasa dalla gioia della comunione fattiva. Siamo di fronte a un linguaggio diversificato per definire l’azione salvifica di Gesù Cristo: lo scopo dell’annuncio dell’evangelo è l’affermazione escatologica della comunione, laddove comunione implica riconciliazione con Dio in Cristo. Dire, dunque, salvezza è affermare la riconciliazione con il Signore e fondare una eterna comunione, che è comunione con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo.

Questa “koinonia” è il significato della vita eterna (cfr. Giov. 17:3).

In altre parole, la parola “comunione” possiede in sé il senso della partecipazione alla grazia divina, ovvero la salvezza donataci da Cristo, profusa dall’azione liberatrice dello Spirito Santo. Qui vediamo una eco della preghiera sacerdotale: “…Che siano tutti uno … che anch’essi siano in noi” (Giov. 17:21). Inoltre, affermando Giovanni che la comunione è fondata sulla comunione con Dio Padre e con il Suo Figlio, si è ancora di fronte alla sottile polemica dottrinale con gli eretici doceti: la comunione dei cristiani è avvalorata dalla loro comunione con il Padre e con il Figlio, in quali condividono la Divinità.

La Chiusa del Proemio fa risaltare una virtù escatologica derivata dall’esperienza della comunione dei cristiani: l’allegrezza o gioia (gr. “chara”). Ciò che ha scritto Giovanni mira a vivere la gioia.

Cosa si intende per “gioia” in termini evangelici? La gioia è il serafico.

Acquietamento dell’anima determinato dalla comunione vissuta dai cristiani per mezzo dell’evangelo: vite trasformate, peccati perdonati, l’esperienza quotidiana della bontà di Dio, anche quando il cristiano attraversa “ i sentieri della valle della morte”, e il suo amore attraverso il dono della vita eterna in Cristo.

Il Proemio si conclude con l’inneggiare alla gioia. Forse, Beethoven e Shiller, se avessero pensato alla gioia evangelica, avrebbero composto il loro “Inno alla Gioia”, glorificando il Signore, invece di esaltare i valori dello spirito umano, come ritorno agli ideali della Grecia antica, che rimangono terreni, transitori e illusori: Colui che era nel Principio, la Parola preesistente, è irrotta nel tempo della storia, è stata udita, vista contemplata e toccata dagli Apostoli. Essi sono stati gli araldi della manifestazione storica dell’Eterno, perseguendo l scopo della comunione gli uni con gli altri, basata sulla comunione con il Padre e con il Figlio, foriera della pienezza della gioia.

Di questa testimonianza e di questo annuncio si nutrono i Cristiani del Ventunesimo secolo.

Paolo Brancè

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