La preghiera è il dono di Dio attraverso cui il cristiano cerca e attua la sua volontà

Il testo finale di 1°Giovanni (5:14-21) appare al lettore come una sorta di postscriptum. La lettera potrebbe avere la sua conclusione al v. 13. Ma Giov. Desidera aggiungere un tema esortativo sull’efficacia della preghiera e il suo specifico raggio d’azione: la preghiera è finalizzata alla realizzazione della volontà di Dio e, particolarmente, è esercitata a favore dei cristiani irretiti dal peccato. Inoltre, in essa confessano che Gesù è il vero Dio.

Possiamo dividere il testo in una triplice sezione:

La preghiera esaudita in conformità alla volontà di Dio. (vv. 14-15)

Giovanni non si stanca di porre l’accento sulla confessione del Cristiano, su cui si basa la sua comunione, ossia Gesù è il Figlio di Dio (“chi ha il Figlio ha la Vita”).

La fede nel Figlio di Dio è la base della preghiera del Cristiano. Egli nutre confidenza (gr. Parresia), fiducia in Dio, una fiducia non solo nelle cose ultime, ma anche fiducia qui ed ora. La preghiera è esaudita se ciò che è chiesto è conforme alla Sua volontà. Nella lettera di Giovanni vi è un testo simile al testo che è menzionato adesso, si trova in 1^ Giov. 3:22: la preghiera è esaudita se si accorda con l’osservanza dei comandamenti divini. Vi è nel cuore del Cristiano un (in)consapevole tentativo di imporre la sua volontà a Dio, o, meglio, di piegare la Sua volontà a quella del Cristiano. Il Cristiano, al contrario, è esortato ad esercitare la preghiera come ricerca della volontà di Dio. Si può correttamente dire che ogni preghiera è una variazione della terza affermazione del “Padre Nostro”, ossia “sia fatta la tua volontà”. E’ lecito a questo punto chiedersi: in che modo Dio esprime la Sua volontà nei confronti del Cristiano, che accoratamente grida a Lui?

Spesso l’errore che i Cristiani odierni commettono nell’esercizio della preghiera è quello di gridare il loro dolore per le incertezze del vissuto quotidiano: si piegano elegiacamente su se stessi, fremendo come un giunco piegato dalla forza del Maestrale. Sebbene diversi Salmi e testi evangelici incoraggino una simile preghiera, essa appare avulsa dalla ricerca della volontà di Dio (cfr. l’esperienza di Gesù nel Getsemani). Ciò che fondamentalmente vuole il Signore è essere amato dal Cristiano e che il suo prossimo sia oggetto anche di amore. Il Signore vuole che i Suoi comandamenti siano adempiuti, quelli fondamentali del Decalogo, di cui Gesù dà una magistrale interpretazione nel Sermone sul Monte. Il Signore vuole l’impegno nell’evangelizzazione, perché la Sua Parola salvifica sia amplificata nell’Ecumene. Il Signore vuole la crescita spirituale del Cristiano, il Signore vuole che il Cristiano faccia fruttificare i suoi talenti, il Signore vuole che il Cristiano cerchi il Regno di Dio, sapendo che tutte le altre cose saranno sopraggiunte, il Signore vuole che il Cristiano sia sale della terra e luce del mondo, che lotti per la giustizia sociale, contro i soprusi e gli inganni dei potenti, che eviti le congiure e le cospirazioni per danneggiare il suo prossimo, il Signore vuole che il Cristiano porti quotidianamente la Sua croce e segua quotidianamente il Suo Signore senza condizione. Siffatte richieste saranno esaudite. In ogni caso i vv.14-15 non sono fini a se stessi, ma preparano il terreno nell’analizzare casi specifici di preghiera esaudita: Giovanni, richiamando l’attenzione del Cristiano sulla certezza dell’esaudimento della preghiera, fa leva sull’intercessione per il fratello peccatore.

L’impegno concreto del cristiano nel pregare a favore dei fratelli abbattuti dai peccati (VV.16-17)

La sezione precedente è dominata dal tema dell’esercizio della preghiera ascoltata ed esaudita da Dio in relazione alla Sua volontà.

In questa seconda parte Giovanni illustra concretamente un caso specifico di preghiera ascoltata ed esaudita e una sua limitazione.

Il Cristiano, conquistato dalla predicazione evangelica, che lo introduce nella Vita, non può curare solo se stesso, ma ha un obbligo etico-spirituale verso il fratello, a cui si riversa la sua attenzione amorevole: in un delicato momento di crisi ecclesiale, la qual fa risaltare l’attacco frontale degli scismatici eretici contro la predicazione apostolica dell’umanità e divinità di Gesù, è probabile che vi siano stati fratelli scivolati nei peccati, “che non conducono a morte” (gr. me pros thanatos aitesei”).

Chi nota siffatta disastrosa caduta spirituale, è chiamato a pregare, sapendo che la sua preghiera è ascoltata da Dio ed esaudita. Colpisce il lettore l’espressione enigmatica “che non conduce a morte”. Cosa vuole comunicare Giovanni ai suoi lettori? E’ necessario, innanzitutto, esplicitare che la morte è il salario del peccato. Commettere peccato significa piombare e sprofondare nel baratro della morte spirituale. Tuttavia, la grazia donata dal Signore affranca il peccatore compunto, ravveduto e docilmente aggiogato alla signoria di Cristo. Non vi sono peccati che non siano perdonati eccetto quello che conduce a morte. Il lettore incappa ancora in un’altra espressione inquietante, scandalizzandolo: l’astensione del Cristiano dall’esercizio della preghiera per colui che è caduto nel peccato che conduce a morte. A prima vista sembrerebbe che il Cristiano si disinteressi per il suo compagno di umanità caduto in peccato mortale. Ma, da una lettura più attenta si può arguire che Giovanni abbia in mente l’integralità dell’insegnamento evangelico sulla preghiera coinvolgente anche i nemici dell’Evangelo. Infatti, egli sta circoscrivendo una difficile situazione di vita ecclesiale agitata dalla dottrina eterodossa dei Cerintiani, i quali, avendo inizialmente indossato l’abito del buon Cristiano, a lungo andare hanno rivelato la loro vera identità, ossia falsi profeti intenti ad affermare la dottrina eterodossa della sola umanità di Gesù. In questa ora di crisi la preghiera va esercitata a favore dei fratelli che sono caduti nei peccati. Al contrario, i Cerintiani sono schiacciati, dominati, soggiogati dal peccato di incredulità, ossia il peccato conto lo Spirito Santo. Simulatori e ingannatori, è tempo perso dare le perle ai porci, perché essi ne fanno scempio. Adesso è l’ora per salvare il fratello ammorbato da azioni peccaminose attraverso la preghiera di intercessione, che Dio ascolta e agisce a favore del fratello decaduto, richiamandolo al pentimento e alla confessione, ristabilendo la comunione.

La preghiera è nel nome del Signore Gesù, attraverso cui il cristiano e’ immunizzato dal virus mortale del peccato e dalle insidie mondane (VV.18-21)

La chiusa della lettera è dominata da una triplice ripetizione del verbo sapere (gr.Oida) nella prima persona plurale in riferimento alla condizione del Cristiano di fronte al peccato, di fronte al mondo e di fronte a Dio e a Gesù Cristo.

La prima affermazione riguarda il Cristiano, il quale, essendo generato da Dio, non pecca. E’ interessante notare che il participio perfetto passivo trasmette l’idea che la nuova nascita non è per niente un’esperienza religiosa transitoria ma duratura. La nuova nascita implica privilegi ed obblighi, uno dei quali obblighi è menzionato con l’espressione radicale “non pecca” (gr. “ouch amartanei”). Il verbo è al presente, indicando continuità, e permanenza. Va da sé la consapevolezza del Cristiano di avere in sé due nature o due “uomini”, quello naturale e quello acquisito dal seme divino. E’ ragionevole pensare che il credente possa cadere o scivolare in azioni peccaminose senza che esse lo dominano, non persistendo abitualmente in esse, non vivendo nel peccato. La nuova nascita implica serietà e responsabilità nella condizione della propria vita spirituale e umana: peccato e figliolanza divina possono occasionalmente incontrarsi, ma non vivere insieme in armonia. Chi è nato o generato da Dio è preservato da Gesù Cristo, che dimora nel Cristiano per la presenza vitale e vitalizzante dello Spirito Santo. Gli assalti bestiali del Maligno sbatteranno conto la corazza della giustizia e lo scudo della fede del Cristiano. Egli non è toccato dagli artigli mortali del Maligno. Tutti i tre verbi sono al presente e indicano un’azione continua e duratura: il diavolo non tocca il Cristiano, perché il Figlio lo preserva ed essendo il Cristiano preservato non pecca. E’ la liberazione dal Maligno, per la quale il Cristiano prega alla fine della preghiera regale del “Padre Nostro”.

La seconda affermazione si aggancia alla prima: il Cristiano, che è generato da Dio, è da Lui preservato, tenendolo a distanza dalla sua capacità naturale di peccare. Giovanni si esprime con il “noi”, ponendosi anche lui all’interno della cerchia dei “generati da Dio”, essendo consapevoli che sono da Dio. Il verbo essere è espresso al presente plurale (gr. Oidamen oti ek tou theou esmen”), indicando ancora una azione continua e duratura. “Il Principe di questo mondo” non può toccarli, mentre esercita il suo potere distruttivo nel mondo, ossia negli uomini senza Dio, che giacciono supinamente e passivamente tra le braccia del Maligno. Con siffatta affermazione Giovanni enfatizza il fatto che il Cristiano non può e non deve stare con un piede nella Chiesa e con l’altro nel mondo. Ciò significa che il Cristiano, legato a Cristo, percorre la strada della purezza e santità, ma allo stesso tempo agisce autorevolmente nel mondo in cui gli alienati da Dio sono curvati dall’opprimente giogo della schiavitù del peccato e del Maligno, per diffondere l’evangelo di Dio, ossia Gesù Cristo, che è la propiziazione dei peccati dell’intera umanità.

La terza affermazione è la più robusta e vigorosa, attraverso cui Giovanni sferra un ennesimo, poderoso attacco all’intera struttura della teologia eretica dei Cerintiani. Egli risalta ancora una volta tenacemente e caparbiamente la divinità di Gesù Cristo, attraverso cui l’uomo conosce Dio e in Lui prevale, liberato, sul peccato.

In Gesù Cristo il Cristiano ha intendimento (gr. dianoian), capacità di percezione del “Vero” (gr.aletinon), che è Dio, non soltanto una conoscenza intellettuale, ma, soprattutto, reale (“Noi siamo in Colui che è il vero”), ma anche in Gesù Cristo, che ha fatto conoscere il Padre Egli, che è la Parola preesistente, che sta di fronte a Dio, Egli, che è il vero Dio e la vita eterna. In questa pericope echeggia la solenne espressione di Gesù: “ …Il Padre è nel Figlio, e il Figlio è nel Padre, e in colui al quale vuole rivelarlo”. Il Cristiano non può essere nel Padre senza essere nel Figlio, né nel Figlio senza essere nel Padre.

La lettera finisce con una accorata e laconica esortazione: “Figlioletti guardatevi dagli idoli”.

Apparentemente sembra che Giovanni abbia digredito dal tema del suo discorso. Tuttavia, analizzando accuratamente ed esegeticamente l’espressione finale del v.21, emerge la volontà ferrea dello Scrittore sacro ad acuire la sua invettiva contro gli eretici.

La parola “idoli” (gr. Eidolon”), preceduta dall’articolo determinativo, può essere intesa come adorazione di statue o simulacri, che rappresentavano le false divinità pagane, che pullulavano nell’oriente greco-romano, di cui Efeso era uno eloquente emblema. Ciò non può essere escluso. Tuttavia, dall’economia concettuale della teologia cristologica di Giovanni emerge la denuncia dell’eresia virulente del Docetismo, i cui falsi concetti diffusi dai loro maestri, negando la divinità di Gesù Cristo, costituivano una idolatria orripilante. Da ciò consegue che tutti i sostituti concettuali di Dio sono spaventosamente idoli, da cui il Cristiano è chiamato a difendersi con vigilanza.

Il Cristiano è profondamente consapevole che la sua identità si basa sulla nuova nascita “nato da Dio”, sulla conoscenza-esperienza di Dio per l’intima unione-comunione con Gesù Cristo, datore della vita eterna, gustata già nella vita intraterrena, prefigurazione di quella ultraterrena (“il Regno dei Cieli”), impegnato a vivere una vita coerente con il suo “status” di cristiano.

Paolo Brancè | Notiziecristiane.com

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