La tentazione politica del pentecostalismo

Dalle Americhe all’Africa cresce la commistione fra fede e potere pubblico, fattore che crea turbolenze all’interno delle chiese storiche.

Vi sono almeno tre ragioni per cui dovremmo usare con maggiore prudenza la categoria della secolarizzazione per interpretare la scena religiosa mondiale. La prima è che chiese vuote, seminari deserti e vocazioni in declino sono fatti sostanzialmente europei: non è così negli altri continenti che invece mantengono alti tassi di “religiosità”. La seconda è che persino nell’Europa “secolarizzata” si affermano forme di religiosità sempre più differenziate, che vanno dalla leggerezza di forme di “nuova spiritualità” alla rocciosa consistenza dei fondamentalismi. La terza ragione è che il vettore pentecostale, il più robusto sulla scena cristiana del XX secolo, non ha perso la sua dinamicità, soprattutto in America Latina e in Africa. Il vento dello spirito pentecostale soffia ancora, e crea più di qualche turbolenza nella navigazione delle chiese storiche. Ma non è questa la novità.

Il fatto nuovo è che, dopo avere lungamente contrastato l’idea di una contaminazione tra chiesa e “mondo” e tra fede e politica, proprio a partire dal grande laboratorio panamericano molte chiese pentecostali oggi legittimano un impegno e uno schieramento nettamente politico. Negli USA la controversa biografia di Donald Trump non ha impedito che vasti settori pentecostali – componente essenziale ma non esattamente coincidente con l’area “evangelical” – si siano spesi per la sua elezione. Forse per bilanciare la scarsa credibilità evangelica di Trump, il suo vice Mike Pence è invece un pentecostale convinto e capace di mobilitare il “voto religioso” così come, in passato, era riuscito solo ad alcuni uomini dell’amministrazione Bush Jr.

In Brasile, dove da decenni la chiesa cattolica non riesce più a tenere la sua posizione, il movimento pentecostale è cresciuto vertiginosamente arrivando a conquistare, secondo alcune stime, il 30% della popolazione. E oggi è accreditato come una delle componenti rivelatesi decisive per l’elezione a presidente dello Stato di Jair “Messias” Bolsonaro: un politico navigato che, dopo aver ondeggiato tra diversi schieramenti, oggi interpreta una destra estrema determinata a smantellare ogni eredità dei governi di sinistra di Lula e di Dilma Rousseff. La coalizione che lo ha portato alla vittoria aveva come slogan “Dio sopra tutto”, espressione che ben descrive un programma “fondamentalista” e familista di cui il presidente, a dispetto dei suoi tre matrimoni, si fa pubblicamente garante. Tra le forze che lo sostengono con più determinazione, vi è la Chiesa Universale del Regno di Dio, una denominazione pentecostale che sin dal suo inizio negli anni ’70 si è posta l’obiettivo di incoraggiare una politica cristiana per il Brasile, riuscendo con successo a promuovere un “bancado evangelico” – potremmo definirla una coalizione confessionale trasversale ai partiti – che ha aggregato numerosi politici, in massima parte conservatori, dichiaratamente evangelici. Non stupisce che, tenendo per mano un pastore pentecostale, nel giorno della sua elezione Bolsonaro abbia annunciato la «sua missione per conto di Dio». Non era la battuta di John Belushi nel celebre film Blues Brothers. Era un programma la cui realizzazione pone più di qualche interrogativo politico e teologico.

Predicatori pentecostali che si prestano alla politica abbondano anche in Africa, soprattutto in Nigeria, il paese che più di altri sta vivendo un sorprendente revival religioso. La difesa della famiglia tradizionale, la condanna senza appello all’omosessualità, la conflittualità nei confronti dell’islam sono gli elementi di contorno di quella “teologia della prosperità” sempre più spesso interpretata da network pentecostali che arrivano in Kenya e in Uganda: in questa teologia fede e affari, spiritualità e benedizioni materiali sono elementi necessariamente associati.

Di fronte a questo fenomeno, come reagiscono le chiese pentecostali che, in omaggio alla tradizione separatista tra “chiesa” e “mondo” guardano con sospetto alla “politica evangelica” oggi così popolare? Difficile rispondere ma una risposta potrebbe arrivare soprattutto dall’Europa dove l’idea di un pentecostalismo politico e politicizzato non sembra entusiasmare che frange ad oggi marginali. Nella forza del vettore pentecostale c’è infatti anche la sua debolezza, e cioè la sua articolazione e frammentazione in teologie e persino ecclesiologie talora distanti tra loro. E proprio osservando le diverse teologie politiche che si confrontano in questa complessa comunità di fede, forse dovremmo iniziare a usare il plurale. Pentecostalismi.

di Paolo Naso | Riforma.it

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