La testimonianza di un medico: “Nella difficoltà possiamo guardare le cose con gli occhi di Gesù”

Vi invitiamo a leggere la testimonianza di Hernan, uno dei tanti medici impegnati sul campo a curare i malati di Coronavirus. Le sue parole ci sono di aiuto per riflettere alla luce della fede su quanto sta accadendo in questo tempo così difficile per il nostro Paese e per il mondo intero. A lui e a tutti gli operatori sanitari il nostro grazie di cuore e la nostra vicinanza nella preghiera.

Cari amici,

oggi faccio la notte, quindi, dopo molti giorni questa mattinata sono a casa (mia moglie è al lavoro in ospedale). Siccome ci viene insegnato che per cogliere il senso vero delle cose il punto di partenza è sempre guardare la realtà, volevo condividere con voi alcune circostanze che mi sono capitate negli ultimi giorni, che possono aiutare me e forse anche altri, a dare un volto umano a dei numeri e fatti che altrimenti rischiano di rimanere lontani, estranei, cioè capiti con la testa ma lontani dal nostro io, dal nostro cuore.

Tra i tanti pazienti che abbiamo visto questi giorni ve ne presento alcuni. Per prima una coppia che viene dalla bergamasca, attorno ai 68-69 anni d’età, entrambi ricoverati per polmonite da covid (nella stessa stanza). All’ingresso entrambi stavano bene, si scherzava cercando di sdrammatizzare, i parametri erano buoni. Nei 2-3 giorni successivi la signora ha iniziato a peggiorare, l’ossigeno nel sangue continuava a scendere e l’ossigeno con la mascherina normale non bastava, inoltre la radiografia era nettamente peggiorata. In questi casi è indicato il posizionamento di un tipo di casco particolare per aiutarla a respirare. Siccome uno degli aspetti più drammatici della situazione negli ospedali è che il numero di malati rende talvolta insufficiente la disponibilità di presidi di supporto respiratorio, dopo un bel giro di telefonate ho appreso che non c’era nessun flussimetro disponibile per attaccare il casco. Il Primario mi ha dato una grande mano chiamando di persona il centro di coordinamento regionale che ci ha detto che al momento non c’erano posti liberi in altri ospedali, che eventualmente ci avrebbero fatto sapere per un eventuale trasferimento. Ho dovuto spiegare a questa coppia che nel caso peggiorasse, la signora avrebbe potuto essere trasferita altrove (oppure – ma non l’ho detto – se non si fosse trovato posto e non avessimo trovato un flussimetro in giro, avremmo assistito a un rapido peggioramento del quadro clinico, forse con esito infausto). Ho chiamato la figlia dei signori per riferire quanto stava succedendo. Lei non ha smesso di ringraziare perché era certa che stavamo facendo tutto il possibile. Dopo 2-3 ore mi chiama la collega pneumologa che avevano trovato la forma di raccordare un tipo diverso di flussimetro per adeguarlo alla paziente. Lo abbiamo fatto e i parametri della signora sono molto migliorati. In ogni momento, sia i signori sia la figlia sono stati, nella consapevolezza della gravità della situazione, sereni e riconoscenti di quanto si stava facendo, provati ma non disperati.

Un altro paziente, di 45 anni circa, con 2 figli piccoli, ieri era molto peggiorato e aveva bisogno del casco, dopo ore di telefonate nel pomeriggio abbiamo trovato un posto nell’unità di terapia intensiva respiratoria e lo abbiamo trasferito. Ho contattato telefonicamente la moglie (che è a casa in isolamento e non vede il marito che è ricoverato da 6 giorni) per spiegare la situazione. Anche lei, in maniera composta, ha ringraziato tantissimo per quanto stavamo facendo.

L’ultimo paziente ha il nome di un arcangelo. Ha meno di 25 anni e la sindrome di Down. All’inizio era molto spaventato, non voleva gli fossero fatti prelievi sanguinei e a tratti era proprio agitato. Col trascorrere dei giorni siamo diventati amici, si fida di più e si fa fare i prelievi (ancora non accetta, però, le caramelle che gli offriamo). Purtroppo sta peggiorando e la lastra del torace fatta ieri era proprio brutta. A me la cosa che ha colpito di più è come viene curato dai parenti. È davvero impressionante che in ogni momento (giorno e notte) c’è un parente (il papà, la zia, il fratello, perché la mamma è a casa con la febbre). Cioè, tutte queste persone rimangono ore e ore in ospedale, in un reparto isolato pieno di malati di coronavirus, rischiando di ammalarsi loro, per curarlo e accompagnarlo. Con semplicità, senza farlo notare, senza pretese.

Provando a giudicare questi e tanti fatti degli ultimi giorni mi veniva in mente un pensiero molto semplice che riguarda le beatitudini. A volte sono tentato a leggere le beatitudini come “cose da fare”. Adesso mi pare piuttosto che Gesù elenchi delle condizioni o circostanze nelle quali possiamo sentire più vicina la Sua presenza, nelle quali possiamo diventare più simili a Lui. Quindi, il “beati quelli che piangono” magari vuole sottolineare come nella difficoltà, nel bisogno, possiamo sentire più chiaramente la Sua presenza (spesso attraverso altre persone) e soprattutto possiamo guardare le cose con i Suoi occhi, con uno sguardo più simile allo sguardo di Dio. Questo spiegherebbe come in circostanze così drammatiche le persone ricuperano un senso di gratitudine, di “non-scontato” e “non-dovuto”, che riecheggia la gratuità del dono totale che Dio ci fa ogni secondo (dell’essere). Spiega come si possa rischiare di ammalarsi per curare un’altra persona.

Vi chiedo di pregare per loro, nelle persone di Maria, Francesco e Raffaelle, pregate per tantissimi malati alcuni molto sofferenti, per le loro famiglie, per quelli che non ce l’hanno fatta – molti sono morti da soli – che possano arrivare subito in Paradiso per pregare per noi che siamo nella prova.

Vi chiedo anche una piccola preghiera per noi, che il Buon Dio ci doni la salute per poter continuare a curare i malati, ma soprattutto perché possiamo fare la Sua volontà (qualunque essa sia) perché è il nostro Bene.

Un caro saluto,

Hernan

Ti è piaciuto l'articolo? Sostienici con un "Mi Piace" qui sotto nella nostra pagina Facebook