L’esportazione della jihad dalla Siria alla Svezia

img-_innerArtFb-_islam_swedenUn cristiano assiro si sveglia, va a lavorare e, con sorpresa e raccapriccio, trova una scritta sul muro del suo ristorante: “Il Califfato è qui. Convertitevi o morirete”.

Il suo locale è marcato con la nota N araba (la lettera nun) che vuol dire: “Nazareno”, cioè cristiano. Chi si ritrova con questo simbolo sul negozio sa che non avrà vita facile, che sarà braccato in quanto cristiano. Sono scene quotidiane, ormai, nelle aree occupate dall’Isis in Iraq e in Siria. Ma nel nostro caso, non parliamo di Mosul o Ninive, ma di: Göteborg, Svezia, in piena Unione Europea.

Il caso del negoziante cristiano assiro di Göteborg ha giustamente provocato scalpore, in Italia ne hanno parlato Leone Grotti su Tempi e Matteo Matzuzzi su Il Foglio. Anche altri negozi di cristiani assiri (una comunità di 3000 persone nella città svedese) sono stati marcati dalla N, a indicare che qualcosa di molto pericoloso è in procinto di scoppiare. Il problema è che non si tratta di un’eccezione. La Svezia dell’accoglienza e dell’asilo politico facile si sta riempiendo di criminali di guerra e anche di terroristi dell’Isis, che nel paese nord-europeo, agli antipodi della Siria e dell’Iraq, trovano già un terreno fertile di minoranze jihadiste sempre più consistenti e agguerrite. Nel luglio scorso, un quotidiano svedese, ilDagens Nyheter, rivelava che l’Ufficio immigrazione segnalasse ben 130 richiedenti asilo ai Servizi di sicurezza perché considerati una minaccia per la sicurezza nazionale. Questa cifra, già superiore a quella del 2014, è in continua crescita. Il numero è ulteriormente salito a 152 nel mese di settembre. Ci sono terroristi e criminali di guerra che hanno già ottenuto asilo politico in Svezia. Lo conferma il direttore generale dell’Ufficio Immigrazione, Mikael Ribbenvik, che a domanda specifica risponde: “Sì, purtroppo è così. Noi sviluppiamo i nostri metodi, ma ovviamente nulla è infallibile. Ci sono casi di criminali di guerra che sono stati scoperti dopo la concessione del diritto di asilo”. Ma non possono essere espulsi, perché nei loro paesi d’origine rischiano la morte. I persecutori, dunque, si spacciano per perseguitati e la legge svedese non li sa e non li può nemmeno distinguere. Purtroppo per chi già abita in Svezia, una volta nel paese non smettono i panni dei persecutori.

Nella cittadina di Kalmar, per esempio, un gruppo di richiedenti asilo cristiani, dopo aver subito minacce, pressioni e violenze, nel luglio scorso ha dovuto abbandonare in fretta il centro di accoglienza in cui era rifugiato. La polizia non è intervenuta, perché se ne sono andati “di loro spontanea volontà”, dopo che i musulmani, in maggioranza, avevano imposto loro locali segregati e il divieto di portare simboli o testi religiosi in pubblico, come si usa nel Califfato. Solo a Göteborg, città con mezzo milione di abitanti, i volontari partiti per combattere nelle file dell’Isis sono circa 150, tre volte tanto tutti quelli reclutati in Italia. L’ultimo caso riguarda l’arruolamento nel Califfato di un gruppo di almeno 30 donne. In una email inviata a Dagens Eko, il notiziario dell’emittente radiofonica nazionale, la Säpo, il servizio di sicurezza svedese, ha scritto che si tratta di “un colpo di scena grave e inquietante”. E come vengono selezionate le richieste di asilo politico? Blogger svedesi e testate indipendenti hanno denunciato, l’estate scorsa, il caso di una funzionaria dell’immigrazione, che a sua volta è un’immigrata musulmana, intenta a fare apologia degli jihadisti sui social network. Il suo compito? Decidere se accettare o meno le richieste di asilo politico.

Il problema è anche di chi in Svezia c’è già e viene incaricato dal governo di svolgere un ruolo di mediazione culturale. Come il caso dell’imam di Gävle, nel Nord della Svezia, che ha ricevuto dal governo un finanziamento di 400mila corone (42.500 euro) per “combattere l’islamofobia e il razzismo nella società”. Come? Nel sito da lui curato, muslim.se, si leggevano alcune regole di comportamento. Tradotte in inglese dal Gatestone Institute, queste regole suonavano così: “Essere omosessuali va punito con la morte”, vietato “fare amicizia con i miscredenti e nutrire simpatia per loro”, vietato “unirsi alle comunità dei miscredenti, unirsi ai loro partiti politici, aumentare il loro numero, acquisire la loro cittadinanza (tranne quando è assolutamente necessario), unirsi ai loro eserciti o aiutarli a sviluppare armi”, vietato “imitare il loro abbigliamento, aspetto, modo di parlare ecc., perché questo denota un amore per la persone o per la popolazione imitata”. Il sito è stato successivamente chiuso (e lo è tuttora) per motivi non precisati.

Di fronte alla jihad, la Svezia appare completamente impreparata. Nel paese nordico sta entrando un conflitto che la classe dirigente non conosce, evidentemente, né ha i mezzi culturali per affrontarlo. Eppure le porte dell’immigrazione e dell’asilo vengono aperte ogni anno di più. Specie con il governo attuale, guidato dal socialdemocratico Stefan Löfven. Il numero medio annuale dei richiedenti asilo, negli ultimi anni, è stato di circa 25mila all’anno. Nel 2014, hanno chiesto asilo 81mila persone e a 33.500 è stato concesso. Con i ricongiungimenti familiari, il numero è salito a 110mila persone. Nel 2015, l’asilo politico è stato chiesto da 180mila persone. Si stima che verrà approvato per almeno la metà di loro. Con i ricongiungimenti familiari potrebbero essere 270mila immigrati in un solo anno. E questo in un paese che non è la Germania (81 milioni di abitanti) e nemmeno l’Italia (60 milioni), ma una nazione di 10 milioni di cittadini, di cui 2 già di origine straniera. Il rischio di perdere il controllo della situazione c’è, così come quello di assistere alla surreale esportazione in Svezia della guerra civile siriana. Inclusi l’Isis e gli eccidi dei cristiani.

di Stefano Magni | Lanuovabq.it

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