Lettera dalla Cisgiordania

È difficile non farsi piacere Salam Fayyad. Il primo ministro dell’Autorità Palestinese ha un atteggiamento da buon vecchio zio e lo charme di un professore all’antica. Vanta un dottorato in economia all’Università del Texas di Austin, è rimasto tifoso dei Longhorns e parla fluentemente in inglese con un accento affascinante. Nella spaziosa sala conferenze del palazzo governativo di Ramallah dove ha i suoi uffici, ci dedica generosamente il suo tempo e si diffonde su una vasta gamma di argomenti rispondendo alle domande poste da me e dagli altri membri di una delegazione americana di professionisti delle questioni di sicurezza nazionale.
Non occorre essere d’accordo con tutto quello che dice Fayyad per rendersi conto che egli è il tipo di leader palestinese con cui i leader israeliani potrebbero fare la pace: se solo i leader israeliani potessero negoziare con lui, e lui potesse rappresentare una solida maggioranza di palestinesi disposta ad accettare una soluzione di compromesso per il conflitto. In sostanza, ecco cosa significherebbe: i palestinesi riconoscerebbero senza ambiguità il diritto di Israele ad esistere entro confini sicuri; in cambio, Israele farebbe tutto il possibile per favorire lo sviluppo di uno stato palestinese libero e concretamente realizzabile. Quante probabilità ci sono che Fayyad possa riuscirci? A occhio e croce direi fra zero e nessuna.
Fayyad ha pochi sostenitori in Cisgiordania, e ancora meno nella striscia di Gaza controllata da Hamas. Non è stato eletto primo ministro: è stato designato nel 2007 dal presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) che si attribuì la facoltà di farlo in base a considerazioni di “emergenza nazionale”. Lo stesso Abu Mazen è stato eletto alla carica di presidente nel gennaio 2005 e il suo mandato di quattro anni è scaduto nel 2009. Da allora, le nuove elezioni sono state rinviate indefinitamente. Allo stesso modo, il Consiglio Legislativo (parlamento) palestinese, che ha sede a Gaza, è stato eletto nel gennaio 2006 per un mandato di quattro anni. Ma un anno e mezzo più tardi, nel giugno 2007, Hamas organizzò nella striscia di Gaza un sanguinoso colpo di stato contro l’Autorità Palestinese. Così, anche le nuove elezioni legislative restano senza data.
I diplomatici americani ed europei apprezzano le capacità di Fayyad e si fidano della sua integrità. Finché è lui il primo ministro, versano più volentieri gli aiuti: quegli aiuti che tengono a galla l’Autorità Palestinese e che sono superiori, pro capite, a quelli versati a qualunque paese in Africa, Asia o America latina. Anche gli israeliani rispettano Fayyad. Ma bisogna capire che tutto questo, presso il grande pubblico palestinese, lo rende meno e non più popolare.
Naturalmente nei territori palestinesi la popolarità non l’unica fonte di potere, e forse nemmeno la fonte di potere principale. Ma Fayyad non comanda nessuna milizia. E, probabilmente proprio perché è considerato un moderato, non riceve sostegno finanziario da ricchi paesi petroliferi musulmani come l’Iran o il Qatar. I capi di Hamas, che invece ricevono sostegno sia dall’Iran che dal Qatar, detestano apertamente Fayyad. Infine, sebbene sia stato nominato da Abu Mazen, Fayyad non è un uomo vicino ad Abu Mazen, il quale oltre a guidare l’Autorità Palestinese è anche a capo di Fatah, la fazione più importante dell’Olp (Organizzazione per la Liberazione della Palestina), quella che più o meno tiene le redini in Cisgiordania.
A metà della nostra conversazione, Fayyad ha chiesto di non essere citato testualmente, richiesta che intendo rispettare. Ma certamente non rivelo nulla di nuovo se dico che Fayyad comprende molto bene quanto siano controproducenti per il processo di pace le minacce apertamente proclamate da Hamas di perseguire la distruzione di Israele. E capisce anche bene che c’è un disperato bisogno di riforme politiche e istituzionali, nei territori palestinesi. Ha lavorato per questo obiettivo con determinazione, anche se non sempre con successo. Quando siamo usciti dal suo ufficio abbiamo visto dei dimostranti, per lo più dipendenti pubblici, che si erano radunati all’esterno per protestare pacificamente perché da parecchio tempo non ricevono lo stipendio.
Ramallah, la capitale di fatto della Cisgiordania, si trova una dozzina di chilometri a nord di Gerusalemme. Per gli standard dei paesi mediorientali non produttori di petrolio non è né depressa né deprimente. Gli edifici sono in pietra chiara di Gerusalemme, con tetti di tegole rosse. Vi sono moschee con alti minareti e cupole verdi, palme e muri in pietra, moderni hotel e buoni ristoranti che servono birra fredda di produzione locale. Vi sono un buon numero di nuovi edifici in costruzione, ma anche spazi vuoti cosparsi di detriti. In alcuni pascolano le capre.
Forse Ramallah non è proprio la città palestinese ideale per il futuro, ma si dà il caso che sulle colline, una decina di chilometri a nord-ovest, è in corso il tentativo di costruire una moderna metropoli. Si chiama Rawabi ed è la prima città pianificata in Cisgiordania, un progetto che costerà un miliardo di dollari in gran parte provenienti dal Qatar. I primi abitanti dovrebbero iniziare a trasferirsi entro un anno. Nell’arco di cinque-sette anni dovrebbe ospitare diecimila famiglie palestinesi, con tanto di centro commerciale, centro culturale, strutture sanitarie, negozi, caffè e un anfiteatro gigante. Bashar Masri, l’elegante ed eloquente imprenditore dietro al progetto, riconosce che Rawabi, per avere successo, avrà bisogno di imprese e posti di lavoro: lui li preferirebbe ad alta tecnologia. Il che richiederà investitori stranieri sicuri che i loro danari non finiscano nei conti bancari esteri di funzionari corrotti. Sarebbe anche utile che Rawabi, e tutto ciò che Masri chiama Palestina, godesse di relazioni non solo pacifiche, ma di piena cooperazione con la piccola ma dinamica “nazione start-up” che confina con loro a occidente.
Sia Masri che Fayyad sono favorevoli a un tale esito, di questo ho pochi dubbi. Ma con il potere palestinese diviso fra i jihadisti di Hamas e la barcollante e corrotta Fatah, e con gli islamisti votati allo sterminio d’Israele in crescita in gran parte del Medio Oriente, non ho idea di come potranno arrivarci.

Da: Israel HaYom, nella foto in alto: Clifford D. May, autore di questo articolo

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