L’Isis è tornato potente in Libia e si alimenta con il traffico dei migranti

All’apertura dell’importante conferenza per la Libia, organizzata dall’Italia il 12 e 13 novembre a Palermo, pubblichiamo la seconda parte dell’intervista a Michela Mercuri, docente universitaria tra le maggiori esperte di Libia in Italia. La prima puntata è stata pubblicata qui.

Lei diceva prima che uno Stato fallito è uno Stato attraverso i cui confini passa ogni attività criminale, dalla tratta dei migranti clandestini al terrorismo. Nella Libia di oggi che pericolo rappresenta il jihadismo? Dopo la sconfitta dell’Isis due anni fa questo pericolo è scemato o è ancora di attualità?
Io ricordo che nel dicembre 2016 l’inviato dell’Onu in Libia disse che l’Isis era stata sconfitta e non era più presente nel paese, ma in realtà molti combattenti si erano tagliati la barba ed erano fuggiti nel Fezzan, la regione più meridionale della Libia. Le milizie di Misurata e i bombardamenti americani hanno sloggiato l’Isis da Sirte, ma molti combattenti sono sopravvissuti e si sono rifugiati nel Fezzan. Nei compound dei combattenti jihadisti furono trovate grandi quantità di peli: si erano tagliati la barba per non essere identificati durante la fuga. Sei mesi dopo un rapporto dell’Onu parlava di 500-1.000 miliziani dell’Isis presenti nel Fezzan, che si erano mescolati con altre organizzazioni presenti in Libia almeno dal 2011, come Al Qaeda nel Maghreb Islamico (Aqmi), che ha ramificazioni nei paesi vicini, soprattutto in Algeria e in Tunisia. Uno sconfinamento di quest’ultima organizzazione dalle porose frontiere libiche sarebbe devastante per i paesi confinanti. Ma oggi l’Isis in Libia si è riprodotta: dopo le sconfitte a Mosul e a Raqqa, molti miliziani sono fuggiti e hanno trovato riparo in Libia.

Di quanti terroristi stiamo parlando?
Quelli che non sono tornati in Europa o in Tunisia, il paese nordafricano che ha fornito più reclute all’Isis, sono riparati in Libia, zona franca dove possono sopravvivere. E oggi, secondo un rapporto delle Nazioni Unite del 27 luglio 2018, ci sarebbero fra i 3 mila e i 4 mila combattenti dello Stato Islamico che sono dislocati nel Fezzan. Ora, grazie ai combattimenti di Tripoli di agosto-settembre, molti sono avanzati di nuovo verso la costa. I miliziani dell’Isis, oltre ad essersi collegati con quelli di Aqmi nonostante la diversità di princìpi e di strategie fra le due organizzazioni, si sono uniti a trafficanti di ogni genere e si sono messi a loro volta a trafficare droga, armi ed esseri umani, sia per l’emigrazione irregolare che per la prostituzione. Hanno trovato nell’entroterra libico, mescolandosi coi gruppi criminali che lucrano sui vari traffici illegali, un habitat ideale in cui esistere, resistere, moltiplicarsi e tentare nuovamente l’avanzata verso la costa. L’Isis e il terrorismo jihadista esistono ancora in Libia e rischiano di sconfinare nei paesi vicini.

Dunque l’Isis si finanzia anche col traffico dei migranti clandestini? Questa non è piuttosto un’attività gestita da milizie più “ufficiali”?
C’è commistione, perché le due galassie sono molto fluide. Ci sono gruppi terroristici che cooperano con gruppi criminali nella gestione del traffico dei migranti. Cinque-sei anni fa un viaggio per un migrante durava uno-due mesi e costava 1.000-2.000 euro. Oggi un viaggio dura un anno e più e costa dai 5 mila ai 10 mila euro, perché nel corso degli anni il numero degli intermediari è aumentato. Le organizzazioni terroristiche e le organizzazioni criminali che lucrano sul traffico dei migranti si sono strutturate tantissimo, sono cresciute in numero e in localizzazione. In passato un migrante africano per arrivare sulle coste della Libia doveva superare uno o due check-point lungo il tragitto, oggi invece essendo molte di più le organizzazioni che lucrano sul traffico dei migranti deve pagare molte più tangenti a più gruppi, e il viaggio dura di più e diventa più pericoloso. I migranti vengono trattenuti nei centri di detenzione anche uno, due o tre anni, mentre gli viene estorto denaro da gruppi sempre più numerosi. Molto spesso in unico carico troviamo mescolati esseri umani e droga. È diventato sempre più difficile distinguere l’organizzazione terroristica dall’organizzazione criminale. Per esempio l’Isis ha mantenuto buoni contatti con gruppi criminali del Levante e ora contrabbanda marijuana che arriva dalla Siria e dall’Iraq. Il mostro è diventato bicefalo: organizzazione criminale e organizzazione terroristica sono diventate due teste di un unico mostro che alimenta criminalità e terrorismo in Libia e in altri paesi. Gli attentatori del Bardo e di Sousse erano tunisini che si erano addestrati a Derna, in Libia; gli attentatori che hanno compiuto le stragi contro i copti egiziani la domenica delle Palme dell’anno scorso erano stati addestrati a Sabratha, sempre in Libia. È il jihad andata e ritorno: la Libia è diventata un hub terroristico, i terroristi partono, colpiscono, e se possono ritornano alla base.

Le milizie libiche, per quel che ne sappiamo, sono pagate anche dallo Stato libico come se fossero corpi di polizia, utilizzando i proventi del petrolio. È così?
Il problema essenzialmente è che non esiste uno Stato libico, e quindi le milizie si sono sostituite allo Stato nella gestione del petrolio, nella gestione dell’economia, nella gestione del paese. La Banca centrale di Tripoli ha i forzieri vuoti perché ha speso tutti i soldi che aveva per pagare le milizie. Tutte esse sono a libro paga della Banca centrale, che di fatto è gestita da persone vicine alle milizie. Il problema è che non esiste più, sia per la gestione del petrolio che degli altri settori economici, un organismo centralizzato in grado di governare l’economia. Il petrolio dovrebbe essere gestito dalla Noc, la compagnia petrolifera nazionale presieduta da Mustafa Sanalla, che visita le capitali europee e dialoga con l’Eni. In realtà però la Noc gestisce soltanto una parte dei proventi del petrolio, perché molti pozzi sono fisicamente gestiti dalle milizie. Di queste la più famosa è quella di Ibrahim Jadhran, che gestisce alcuni terminal petroliferi nevralgici nella zona di Sirte. Per comprare il petrolio di questi pozzi occorre rapportarsi direttamente col signor Jadhran. Alcuni terminal del petrolio e del gas dell’Eni che si trovano a Mellitah sono sotto la “protezione” delle milizie Dabbashi: gli accordi vanno fatti direttamente con loro. Non si riesce a riportare la Libia a un’economia centralizzata, soprattutto per quanto riguarda il settore energetico, che è quello preponderante del paese, perché le milizie non mollano l’osso, perché vivono di quello. Ma è questo il grandissimo sforzo che la comunità internazionale deve fare: togliere alle milizie la gestione dell’economia illegale e sostituirla con un’economia legale. Disarmare le milizie ma cercare di riconvertirle in effettivi dell’esercito nazionale: non possiamo pensare di disarmare le milizie e dire loro “arrivederci, grazie”. Bisogna pensare a un progetto alternativo di ridistribuzione dei proventi del petrolio a livello centralizzato che tenga anche conto delle milizie, altrimenti non si riesce a convincerle a rinunciare alla loro fonte di reddito. E alla stabilizzazione della Libia non si arriverà mai.

Cosa possiamo sperare realisticamente dalla conferenza per la Libia che fra il 12 e il 13 novembre si svolgerà a Palermo?
Questa è la grande scommessa italiana. Sto ascoltando e leggendo pareri molto discordanti su questa conferenza, ma io sono moderatamente ottimista, perché questo è un momento favorevole all’Italia. L’Italia ha lavorato molto in Libia negli ultimi anni con gli attori locali, comprese le milizie. Ha dialogato direttamente con quei famosi attori di cui tutti parlano ma che nessuno in realtà coinvolge in un rapporto. L’Italia lo ha fatto, con le milizie del Fezzan, i Tebu, i Tuareg, ecc. Da questo punto di vista noi abbiamo un buon capitale di partenza rispetto ad altri attori come la Francia, che hanno tentato di fare accordi fra i vari leader libici. Poi abbiamo un altro punto a nostro favore in questo momento: il placet americano e il placet russo. Non sappiamo ancora chi verrà inviato dal Cremlino e da Washington a questa conferenza, non credo che arriveranno Trump e Putin, potrebbero arrivare Mike Pompeo e Sergej Lavrov. In ogni caso c’è stato un endorsement importante sia da parte americana che soprattutto da parte russa. Probabilmente Putin ha convinto Haftar a venire a Palermo, abbiamo questa carta. Abbiamo una conoscenza del territorio che ci può permettere di avere anche i famosi attori locali che Parigi ha sempre voluto ma non è mai riuscita ad avere ai suoi tentativi di vertice. Sicuramente è una scommessa difficile, ma partiamo con alcuni punti importanti a favore. Dalla conferenza non possiamo aspettarci una roadmap coi punti per una stabilizzazione della Libia concordati da tutti gli attori, non possiamo sperare di portare tutti gli attori all’approvazione di un unico piano operativo. Però sicuramente abbiamo alcune carte da spendere per creare un accordo di massima fra alcune fazioni e per far incontrare alcune fazioni che prima non si erano mai incontrate, come Haftar e quelli di Misurata. Quando Macron ha convocato il suo summit per la Libia all’Eliseo il 29 maggio scorso, è riuscito a far incontrare Sarraj e Haftar, ma ha ricevuto il due di picche dalle 13 più importanti milizie libiche che aveva invitato, fra queste i misuratini. Quindi abbiamo dei punti a nostro vantaggio e li dobbiamo fare valere.

Ma i rappresentanti di queste milizie a Palermo li vedremo?
I lavori diplomatici di preparazione del summit sono circondati dal riserbo, ma per esempio sappiamo che i Tuareg hanno già dato il loro assenso alla partecipazione, così come alcune delle milizie del Fezzan e di Misurata (quelle vicine al vicepremier Ahmed Maitig); altre saranno più difficili da convincere. I lavori sono ancora in corso d’opera.

Foto Ansa

Rodolfo Casadei | Tempi.it

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