L’utilità del dialogo coi figli

Tra i comandamenti per eccellenza, nell’antropologia cristiana vi è l’amore del prossimo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso” (Mt 22, 37-40).

Un comandamento che sancisce il principio della relazionalità. E’ accertato che il disagio di relazione riveste un campo specifico in molte problematiche psicologiche soprattutto familiari come testimoniano i lavori pioneristici di psichiatri esistenzialisti del calibro di R. Laing (1959) e D. Cooper (1967), M. Bowen, L. Wynne, Ackermann, Don Jackson, J Haley J.H. Weakland. Questi colsero una significativa corrispondenza tra dialogo carente e problematiche psicologiche, personali e familiari. Caratteristica incomprensione o meglio disagio di dialogo è l’episodio citato da Marco (9, 14-27) in cui i suoi discepoli non guariscono il ragazzo posseduto mentre Gesù, da profonditore conoscitore dell’animo umano Gesù interrogò il padre: «Da quanto tempo gli accade questo?». Ed egli rispose: «Dall’infanzia; anzi, spesso lo ha buttato persino nel fuoco e nell’acqua per ucciderlo… Come psicologo e psicoterapeuta mi colpisce l’ottica di Gesù che stimola la guarigione interrogando il padre, come se fosse un’indagine anamnestica per cogliere il senso, il significato e il contesto del sintomo. E lo fa dopo avere osservato il comportamento del ragazzo che legge nell’ottica del sistema relazionale padre-figlio, (https://www.notiziecristiane.com/gesu-lamore-la-relazione-e-il-cambiamento-del-sistema). In ultima analisi dal testo evangelico è significativo annotare come il cambiamento del padre nella fede, diventi preludio di benessere e salute del figlio. Il padre accetta, cambia, crede e si responsabilizza nella relazione e dialogo con il figlio. Da psicologo e psicoterapeuta, ascoltando genitori e figli si coglie una certa mancanza di dialogo efficace che avvalora incomprensione e disagio. Senza teorizzare in psicologismi e filosofismi vediamo in pratica come è possibile avere un dialogo più costruttivo e funzionale.

In primis è importante valorizzare il figlio per quello che è e non per quello che fa; questo aumenta l’autostima.  Molte volte un genitore accusa il figlio per un errore, uno sbaglio, un comportamento generalizzando su tutto l’essere. Una cosa è dire: “non mi piaci quando alzi la voce senza motivo” ed un’altra è dire: “non mi piaci che alzi la voce”. Mai generalizzare su una correzione. Un’attenzione a non generalizzare ha come conseguenza un altro fattore importante; stimola l’ascolto attivo. Questi è un processo teso a non emettere sentenze e giudizi indiscriminatamente mentre stimola l’autonomia di pensiero attraverso il porre domande esplorative che facilitino una nuova consapevolezza del proprio stato d’animo o di pensiero. Si concretizza nelle seguenti espressioni: “se ho capito bene, da quanto mi dici, capisco che sei nervoso puoi dirmi di più sul tuo nervosismo? Senza dubbio è più difficile ascoltare attivamente che emettere sentenze e giudizi critici. Ricordandoci dell’avvertimento di Gesù «Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e vi sarà perdonato» (Luca 6,37).

In definitiva è funzionale al benessere e all’accrescimento dell’autostima stimolare il figlio alla consapevolezza del proprio comportamento, del proprio stato d’animo e delle conseguenze. Fra le responsabilità che Dio dà all’uomo, è quella di allevare i figli in modo sano e questo richiama i sani rapporti in famiglia. Leggiamo nel brano, Efesini 6. 4: “E voi, padri, non provocate ad ira i vostri figli, ma allevateli nella disciplina e nell’ammonizione del Signore.” (Efesini 6:4).  I genitori hanno autorità sui figli, e bisogna usarla nella giusta modalità perché se è usata male ha conseguenze sul sia rapporto con il genitore che sulla propria autostima. E credo che nessun genitore in buona fede voglia questo.

Pasquale Riccardi

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