Malawi: Sorrisi amari, libertà di stampa violata e mani straniere sulle risorse!

imagesAbbiamo scelto il volto sorridente di un bambino del  Malawi perchè la speranza che si legge negli occhi di questo bambino e la stessa di quella che noi abbiamo in Cristo Gesù! La mano di Dio è, infatti, sopra il capo di questi bambini anche se mille problemi in quel posto sperduto africano li attanagliano! Dio e con loro ieri, oggi e per sempre; perchè anche se al momento  questi bambini lì sono gli ultimi, un giorno avranno i primi posti nel regno dei cieli!  Potrebbe  sembrare bizzarro leggere un articolo  su una pagina dell’edizione domenicale del Nation on Sunday, accompagnata da una vignetta che si chiede fin dal titolo «Quanto sono liberi i nostri media?». Leggendo poi quell’articolo, si scopre che non è bizzarro affatto! Che in un Paese come il Malawi, afflitto da mille problemi e da un sottosviluppo ormai cronico, i giornali si dedichino all’argomento. Perchè è proprio la libertà di stampa e la sua importanza per una democrazia ancora fragile a dominare il dibattito pubblico a queste latitudini, segno di come soprattutto la classe media tenga ormai gli occhi ben aperti sull’operato delle istituzioni.
D’altronde alla scadenza delle elezioni locali, legislative e presidenziali manca ormai solo un anno e la classe politica ha già cominciato a serrare le fila. Nei giorni scorsi Banda – attiva in passato con progetti di imprenditoria femminile – ha accusato i giornali indipendenti di aver «ucciso» con le loro critiche l’ex presidente Bingu wa Mutharika. Le era stato chiesto di firmare una dichiarazione continentale di impegno nei confronti della libertà di stampa, richiesta rispedita subito al mittente perché «i media non hanno compassione, sono contro di me». Così il sindacato dei giornalisti ha organizzato nelle scorse settimane a Blantyre, seconda città del Paese, una manifestazione di protesta, minacciando di boicottare d’ora in poi gli appuntamenti elettorali del presidente.
Solo una stampa libera può impedire il deragliamento del Paese. Un Paese che l’Onu classifica al 162esimo posto su 175 per sviluppo umano e che dipende per il 40% dagli aiuti internazionali. E sebbene le statistiche non possa dir tutto, basta un giro per le strade di Balaka, Kankao o Liwonde – o delle decine di micro-villaggi della zona – per capire che di strada da fare ce n’è ancora molta. Chi è fortunato abita in piccolissime e malandate casette di mattoni con il tetto in lamiera, ma sono in molti a potersi permettere solo un tetto di paglia intrecciata ad erba. Per le strade l’illuminazione pubblica è completamente assente (solo il 7% della popolazione ha accesso all’elettricità) cosicché al calar del sole, poco dopo le 17, anche nei mercati si è costretti a ricorrere a qualche fiammella. Le automobili sono rare, la benzina costa quasi quanto in Italia: chi può permetterselo gira in bicicletta, gli altri a piedi camminando sul bordo delle strade. Nei campi è tempo di raccolta del cotone, ormai in mano ai cinesi per il 60%: piegati sotto il sole si vedono famiglie intere al lavoro, bambini inclusi, fin dalle prime ore del mattino. Mentre su 14 milioni di abitanti, la cosiddetta classe media, in gran parte funzionari pubblici, non arriva al 10%.
Vorrebbe farne parte anche Frank Chaola, professione insegnante, ma i suoi 40mila kwacha di stipendio mensile (circa 80 euro) sono stati divorati negli ultimi tempi da un’inflazione salita anche al 35%. Inflazione causata dalla svalutazione della moneta attuata dal presidente Banda (arrivata al 100 per cento in un anno) su indicazione del Fondo monetario internazionale per sbloccare finanziamenti e aiuti. «La vita qui è dura – ammette Chaola – e per chi è senza lavoro ancora di più. Almeno il 30% dei giovani lascia la scuola prima dei 18 anni e molti provano ad emigrare in Sudafrica, ma anche lì le prospettive per chi non conosce già un mestiere sono scarse. Per quelli che vogliono continuare a studiare, invece, il problema sono le rette universitarie: per quelle pubbliche servono almeno 300mila kwacha all’anno (600 euro), per le private 500mila (mille euro). Si stima che solo 1 studente su 8mila ce la faccia».
Anche Justin Duwa, educatore 31enne al Cecilia Youth Center di Balaka, conferma che la situazione è difficile: «Balaka non offre molto – spiega –, non ci sono nemmeno quelle poche possibilità lavorative che si trovano a Lilongwe, la capitale, o a Blantyre, ma non bisogna lasciare i ragazzi perdersi per strada, tenendoli anzi sempre occupati anche con attività sociali».
A risentire dei problemi economici, indirettamente, è anche il patrimonio ambientale del Paese. Sono tantissime, infatti, le famiglie costrette a darsi ad un disboscamento artigianale necessario per procurarsi almeno un po’ di legna da vendere. Con il risultato che ci sono sempre meno alberi, fattore di cui si risente nella stagione delle piogge, quando aumenta il rischio inondazioni.
Le multinazionali straniere, intanto, continuano ad investire, anche se, ci dicono in molti, sono soprattutto gli alti «papaveri» delle amministrazioni centrali e locali a godere dei frutti di tanto attivismo. Se i cinesi si sono dati al cotone, i brasiliani della Vale hanno stipulato un accordo da 1 miliardo di dollari per la costruzione di una linea ferroviaria di 138 chilometri tra Chikhwawa e Balaka; gli australiani della Paladin Energy sono attivi nell’estrazione dell’uranio nel distretto settentrionale di Karonga; i sudafricani della Thuthuka, insieme ad un gruppo australiano, si dedicano al niobio.
«Un adagio di queste parti dice: “Una volta che hai una sedia, è il tuo turno di mangiare” – sorride amaro Joseph Kayira, giornalista 42enne – Per questo è importante che i media abbiano accesso agli atti pubblici, che ci sia una vera trasparenza, altrimenti la corruzione finirà con il mangiarsi quel che resta di questo Paese».

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