Nascere donna in Arabia Saudita

Di certo non sta avendo luogo in Arabia Saudita una “svolta rosa”, come L’agenzia di stampa italiana ha battuto alcuni giorni fa e come diversi giornali hanno rilanciato dalle loro colonne. Sicuramente va però riconosciuta la portata storica dell’apertura alle donne del Consiglio della Shura, l’organo consultivo della monarchia wahabita, finora ad esclusivo appannaggio degli uomini. La quota del 20% riservata alla componente femminile è pari a 30 dei 150 membri, designati ogni 4 anni per sottoporre proposte di legge al sovrano (che continua ad accentrare in sé il potere legislativo), esprimere pareri anche su temi di politica estera, dare interpretazioni alle leggi e infine interpellare i ministri sulla loro azione politica.

La decisione non scardina affatto il sistema saudita di pressoché completa separazione dei sessi, con una chiara segregazione della componente femminile. Lo ribadisce espressamente il decreto reale che, tra le misure atte a garantirla, ha previsto “la costruzione di posti speciali riservati alle donne e un’entrata riservata per la sala principale del Consiglio”. Scontata inoltre la precisazione che alle donne che varcheranno le soglie della Shura sarà imposto “di rispettare severamente le regole della legge islamica (Sharia), compreso l’Hijab integrale per coprire la testa e il volto” (la tradizionale tunica nera tipica della penisola arabica lascia infatti scoperti solo gli occhi delle donne). Una parità “velata” quella concessa, dunque, che permetterà alle donne di esercitare funzioni identiche agli uomini delegati all’interno del Consiglio? Si spera. Intanto infuria la protesta da parte di una cinquantina di Ulema sauditi dell’ala più conservatrice, che sono scesi in piazza di fronte al Tribunale reale per contestare la decisione del re Abdullah in Abdulaziz al Saoud, nonostante il provvedimento fosse stato preventivamente accolto dalle massime autorità religiose del Regno, tra cui il Gran Muftì.

Tale decisione era stata infatti presa dallo stesso monarca nel settembre 2011, insieme all’annuncio della concessione del diritto di voto attivo e passivo per le elezioni amministrative dei consigli municipali del 2015 (le uniche elezioni previste nel sistema saudita). Una concessione che non è ancora stata tradotta in disposizioni concrete e che dunque rischia di rimanere una promessa vacua, anche perché essa stessa nasce come risposta a una contestazione. La riforma raccomandata inizialmente dalla Shura autorizzava infatti il diritto al voto delle donne ma non la loro candidatura alle elezioni, vanificandolo così di fatto il suffragio universale fin dalla prima tornata. Tuttavia queste iniziative appaiono minuscoli passi nella direzione dell’effettiva tutela dei diritti politici (e civili) delle donne saudite, come da anni denuncia con durezza Human Rights Watch. Nascere donna in Arabia Saudita significa infatti subire pesanti discriminazioni in tutti gli aspetti della vita, compresa la famiglia, l’educazione, l’occupazione e il sistema giudiziario. Significa non poter viaggiare, né lavorare, e persino non poter subire interventi medici senza l’autorizzazione formale di un maschio della famiglia. Significa non poter guidare un’automobile: una disposizione contestata dalla prima giornata nazionale di protesta delle donne del 17 giugno 2011, che aveva riscosso ampie simpatie internazionali e che aveva smosso le acque della monarchia assoluta saudita. Ciò deriva dall’“ideologia” che sostiene il regno: il wahabismo, una corrente radicale islamica che interpreta in maniera restrittiva e radicale le norme coraniche. Tale visione non è comunemente accettata nel mondo mussulmano che tradizionalmente dovrebbe sostenere la giusta misura nei comportamenti morali e una prassi includente e ragionevole.

Nascere donna molto spesso significa non avere un’infanzia, data la pratica assai diffusa delle spose- bambine. È recentemente salita agli onori (o forse è il caso di dire disonori) della cronaca la storia di una bambina di 15 anni che la notte delle nozze è scappata dal neo-marito novantenne: una piaga, quella dei baby-matrimoni, che la scorsa estate ha indotto il ministro della Giustizia Mohammed Al Issa ad annunciarne la regolamentazione, ponendo un limite di età alla bambine concesse dalle famiglie in matrimonio. Un’intenzione peraltro non ancora giunta a compimento e che probabilmente rimarrà una promessa, a fronte delle proteste di alcuni membri del più alto Consiglio religioso saudita ma soprattutto della parte conservatrice della società civile. In realtà una normativa internazionale in materia esiste da quasi 50 anni e ha imposto il limite dei 15 anni di età, affiancando al requisito anagrafico il pieno, libero e chiaro consenso di entrambe le parti nel contrarre il matrimonio come condizioni per dare valore legale all’atto (al riguardo si veda la specifica “Raccomandazione alla Convenzione sul consenso al matrimonio, l’età minima al matrimonio e la registrazione dei matrimoni” dell’Onu del 1965). Non stupisce affatto che né il ministro né il Consiglio si sognino di far riferimento alle disposizioni internazionali di tutela dei diritti umani, in un Paese che non ha ratificato alcuna convenzione in materia, tantomeno in materia di discriminazione di genere. Ancora peggiori sono le condizioni di vita delle numerose donne straniere impiegate nei lavori domestici, circa 1,5 milioni fra indonesiane, cingalesi, filippine, indiane ed etiopi, di fatto spesso sottoposte a sfruttamento e abusi, dal lavoro duro non retribuito alla violenza fisica in condizioni simili alla schiavitù. La ribellione o la denuncia degli abusi molto spesso equivale all’incarcerazione se non alla condanna a morte.

L’apertura della monarchia saudita alle donne è di certo stata favorita dalle pressioni della parte femminile della famiglia reale, in particolare della figlia più giovane del sovrano, Adila, nota per la sua lotta contro le violenze domestiche e della nipote, Amira Tawila, sostenitrice della protesta per il diritto alla guida. Alla richiesta di ampliamento della partecipazione femminile alla vita pubblica non risultano estranee ricche e potenti donne saudite, come l’imprenditrice Khlood al Dukheil, o Lubna Olayan, a capo di una delle banche d’affari più grandi della regione, o Nora al-Faiz, nel 2009 viceministro per l’Istruzione. L’ostacolo più grande a una reale emancipazione delle donne continua ovviamente a risiedere nella parte maschile della società saudita. Un ostacolo non da poco per un Paese che ha addirittura imposto la rimozione delle donne e delle bambine dal catalogo del colosso dei mobili low- cost Ikea, in osservanza alle severe leggi che vietano di ritrarre donne non velate.

Miriam Rossi

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