No. Non possiamo banalizzare e normalizzare un bambino che cambia genere

«La danza può essere di grande aiuto per costruire la propria identità, perché è prima di tutto libertà di espressione, oltre che creatività e tecnica. Di certo è stata un valido supporto per la ravennate Emma, 10 anni, che ha trovato la forza e il coraggio di dire ‘no’ al nome, Vincenzo, e al genere, maschile, che le sono stati attribuiti alla nascita, facendo ‘coming out’ in famiglia, a scuola, in società».

Così viene celebrata e normalizzata, dalla stampa, la storia di un bambino che, appunto, avrebbe deciso, a soli dieci anni, di «uscire da una ‘gabbia’, per librarsi finalmente in una nuova dimensione”.

Ma a 10 anni – o comunque da bambini o adolescenti – si può essere sufficientemente consapevoli e maturi per fare delle scelte così radicali e spesso definitive, che possono sfociare anche nella chirurgia e nella (non facile) assunzione di una nuova identità? Al di là del singolo e specifico caso e di questa storia, infatti, le notizie di «bambini che vanno ascoltati», per i quali si dice che sia «giusto che vivano la loro vita, quella più congeniale al loro sentire, perché tutti meritiamo di essere felici», si fanno sempre più frequenti, soprattutto nelle nostre società dove tutto è sempre “liquido”.

L’influenza dei social (Tik Tok, Instagram, etc.) non sta forse avendo un ruolo di pesante condizionamento su bambini, ragazzi e giovani, in modo da dare l’idea che tutto sia permesso, tutto sia lecito e innocente, perfino cambiare nome, cognome, sesso e identità? Le ricerche mostrano che la liquidità sociale, la fragilità esistenziale dei nostri giovani, l’assenza frequente dei genitori o di uno di essi e la diffusione di modelli educativi sballati o eccentrici stanno portando ad un aumento di problematiche di questo tipo.

Cosa dice a tal proposito la scienza, e in modo speciale la medicina? Una risposta recente ci viene dalla Francia, paese in cui pullulano i casi di minorenni che vorrebbero un altro genere, anziché quello che gli è stato “assegnato” alla nascita.

Il 28 febbraio scorso, infatti, l’Accademia Nazionale di Medicina di Parigi ha emanato un importante comunicato sulla cosiddetta “transizione di genere” e sulla trans-identità. Il testo invitava tutti, in nome della scienza, alla più grande prudenza e riserva rispetto all’esplosione delle richieste degli adolescenti. La cosiddetta “trans-identità” presso il bambino e il ragazzo, definita dall’Accademia come una «disarmonia» non deriva infatti da «alcuna predisposizione genetica».

Alla luce quindi dei risultati della psicologia, della medicina e della pediatria, l’Accademia invitava a «una grande prudenza medica» gli esperti. Specie quando è questione di terapie a base di ormoni (che bloccano il naturale sviluppo della sessualità) e ancor più di interventi chirurgici, visti gli effetti secondari già riscontrati nei casi di riassegnazione di genere sul bambino o la bambina. Tra essi, erano segnalati, «l’impatto sulla crescita, l’indebolimento osseo, il rischio di sterilità, le conseguenze emotive e intellettuali».

E’ certamente giusto, come affermato da molti genitori, avere la buona volontà di ascoltare i figli, con l’auspicio legittimo che essi «vivano felici». Ma il desiderio del figlio non deve divenire un assoluto e un diktat. Altrimenti, tanto per dirne una, le scuole si svuoterebbero, e l’educazione – che richiede dei divieti, dei limiti e dei no – diverrebbe impossibile.

Oggi, la letteratura ci parla di un aumento di bambini e ragazzi che affermano di «essere nati in un corpo sbagliato» e le cause possono essere tante, non ultima la perdita di riferimenti stabili nella famiglia, fondata sul padre e sulla madre. Il periodo da sempre difficile dell’adolescenza può e deve essere superato non accontentando qualunque desiderio espresso dal bambino, bensì aiutandolo a recuperare la sua propria identità biologica e naturale.

Come diceva il monito classico: divieni ciò che sei. La biologia e l’anatomia esistono e non possiamo cancellarle a colpi di bianchetto.

https://www.provitaefamiglia.it/blog/no-non-possiamo-banalizzare-e-normalizzare-un-bambino-che-cambia-genere

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