Se qualcuno avesse raccontato a Montaigne che un giorno l’umanità avrebbe sacrificato la propria capacità di riflessione e dialogo per un giocattolo tascabile, avrebbe probabilmente risposto con una risata amara, invitandoci a leggere più Seneca e meno messaggi vocali.
Eppure, eccoci qui: lo smartphone è diventato il prolungamento del nostro braccio, e non c’è verso di convincere la gente che, prima dell’invenzione di questo aggeggio, l’umanità abbia non solo vissuto, ma addirittura pensato.
Lo smartphone è il nuovo idolo delle masse. L’oggetto sacro a cui ci si inchina ogni mattina, subito dopo il caffè. Un tempo ci si svegliava, si guardava fuori dalla finestra per capire che giornata ci aspettava, o si apriva un libro, magari uno di quelli con le pagine.
Adesso, invece, l’unica finestra che guardiamo è quella delle notifiche. Se i Greci avevano il Kosmos, noi abbiamo l’iOS.
Il simulacro della modernità
Nietzsche aveva predetto la morte di Dio, ma non aveva visto arrivare il regno dello smartphone. Se l’avesse fatto, avrebbe probabilmente aggiornato il suo Zarathustra con una versione più attuale, qualcosa tipo: “Così parlò l’algoritmo.” Perché è questo che ci siamo ridotti a fare: venerare un insieme di codici, che decidono per noi cosa leggere, cosa vedere e perfino cosa pensare. Il sogno dell’uomo libero, di quell’individuo che forgia il proprio destino?
Roba da utopia del secolo scorso. Ora il nostro destino ce lo scrive direttamente Mark Zuckerberg.
Il paradosso più grande? Ci crediamo più liberi che mai. Liberi di esprimere opinioni, di condividere ogni attimo della nostra vita. Solo che questa libertà si riduce in realtà a una catena fatta di notifiche, like e swipe. Spinoza ci avrebbe ricordato che “la libertà è la necessità compresa”, ma oggi ci accontentiamo di scorrere la bacheca senza capire un bel nulla.
Socrate e il declino della conversazione
Ricordate Socrate? Quello che diceva che il dialogo è l’anima della conoscenza? Se fosse vivo oggi, probabilmente avrebbe un esaurimento nervoso nel vedere come si svolgono le nostre “conversazioni”.
Lo smartphone ha trasformato la dialettica in una serie di emoji e GIF animate. Un tempo Platone parlava di aletheia, della verità che si svela attraverso il confronto. Oggi ci limitiamo a inviare un pollice in su. E pensiamo pure di essere stati chiari.
Non c’è più discussione, non c’è più approfondimento. Il dialogo socratico è stato sostituito da vocali di tre minuti e risposte monosillabiche. “Ti va un caffè?” diventa “Certo”, e questo basta per mettere a tacere ogni residuo di intellettualità. Chi ha bisogno di leggere i Dialoghi quando c’è WhatsApp che ci informa sull’ultima litigata tra amiche per un filtro di Instagram?
La verità si è nascosta da tempo, e noi ci siamo accontentati del “visualizzato alle 14:05”.
Marx, l’alienazione e i selfie
Se Karl Marx potesse risorgere giusto per dare un’occhiata al nostro mondo, probabilmente aggiornerebbe il suo concetto di alienazione. Non più solo “alienati dal prodotto del nostro lavoro”, ma alienati da noi stessi. Viviamo per creare una versione finta di ciò che siamo, un avatar perfettamente filtrato e luminoso, pronto per essere lanciato nel mondo dei social. Che importa se, nel frattempo, dimentichiamo chi siamo davvero? “L’importante è che faccia effetto,” ci direbbe un moderno Baudrillard, che del simulacro aveva già capito tutto.
Questa alienazione ha preso la forma dei selfie, quei monumenti all’ego che costruiamo quotidianamente con l’entusiasmo di un Fidia 2.0. Un tempo si facevano statue per onorare gli eroi, oggi basta uno smartphone per celebrare noi stessi in qualsiasi angolo del mondo: dal bagno di casa nostra alle piramidi d’Egitto, con la stessa disinvoltura. Ci siamo sostituiti alla storia, convinti che basti un’inquadratura giusta per eternarci nel pantheon digitale.
Qualcuno dica a Omero di smettere di scrivere: non abbiamo più bisogno dei suoi poemi, tanto c’è Instagram.
Pasolini e la società degli analfabeti digitali
Pasolini, che di queste cose capiva fin troppo, oggi ci guarderebbe con un misto di disgusto e compassione. Parlando della società italiana degli anni ‘60, disse che eravamo “il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa”.
E pensare che ancora non avevamo gli smartphone. Se ci vedesse adesso, probabilmente aggiungerebbe: “Analfabeti digitali”. Perché è questo che siamo diventati: persone incapaci di staccarsi dal flusso continuo di stimoli inutili, che sostituiscono la profondità con la velocità, la riflessione con la notifica.
Pasolini ci ammoniva sulla decadenza culturale; oggi, quella decadenza l’abbiamo abbracciata, convinti che l’accesso illimitato all’informazione significhi automaticamente sapere qualcosa. Ma la verità è che non sappiamo nulla. Siamo semplicemente sopraffatti dai dati, sommersi dalle fake news e dalle opinioni vuote. E lo smartphone è il nostro grimaldello, la porta d’accesso a questa ignoranza diffusa e autoalimentata.
La solitudine di Enea… con il 5G
L’Italia un tempo era il paese dei poeti, dei santi e dei navigatori. Oggi siamo il paese delle ricariche telefoniche, dei giga consumati e dei selfie alla mostra di Caravaggio. E chissà cosa penserebbe Enea, l’eroe in fuga con il padre sulle spalle, se si trovasse oggi su una metro affollata, circondato da persone che fissano il proprio schermo senza accorgersi nemmeno di chi gli sta accanto. Lui, che portava sulle spalle il futuro di Roma, ora vedrebbe il futuro ridotto a un’app di consegna a domicilio.
Ma non preoccupiamoci troppo. In fondo, stiamo solo seguendo il progresso. Con il 5G, almeno, i nostri selfie saranno caricati in tempo reale. E questo, cari lettori, è l’unico progresso che ci interessa davvero.Davide Romano
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