Non amate il mondo ne’ le cose del mondo

Il testo dell’Apostolo di Giovanni che siamo in procinto di analizzare appare ai nostri occhi come un testo disorganico e frammentario. Tuttavia, se lo leggiamo attentamente e con diligente applicazione, ci accorgiamo che la prima parte (2:12-14) getta luce alla seconda parte (2:15-17).

Infatti, il testo ha in sé una duplice sezione, in cui prevale il messaggio della vittoria del cristiano sul peccato/maligno e sul mondo ammorbato dalla concupiscenza. Il tema fondamentale del testo è l’antitesi tra l’amore per Dio e l’amore per il mondo. Sebbene tale unità tematica balzi agli occhi, leggendo i vv.15-17, ossia l’ammonimento contro il mondo e la mondanità, tuttavia, siffatto monito raggiunge i cristiani a cui Giovanni sta scrivendo con toni elogiativi (figlioli, padri, giovani) probabilmente per un loro smarrimento spirituale.

L’elogio-monito dei figlioletti, padri, giovani: la promessa salvifica (2:12-14)

I tre versetti di 2:12-14 hanno in sé aspetti linguistico-sintattici e teologici disorganici. Nel definire la sua azione dello scrivere apparentemente a tre gruppi Giovanni usa prima il presente nel v.12 (gr. Grafo) e l’aoristo al v.14 (gr. Egrafa), che può essere tradotto con “ho scritto”. Perché Giovanni fa uso diversificato dei tempi? Ancora, chi sono i tre gruppi, se di gruppi si tratta?

Alla prima domanda possiamo rispondere come segue: si tratta di un artificio stilistico-letterario. Certamente, Giovanni non ha scritto una lettera precedente a quella di cui stiamo parlando. Il presente e il passato fanno risaltare l’esperienza della fede nel momento in cui l’hanno vissuta e il riferimento al tempo passato indica la conseguenza presente di un evento passato. In altre parole, i cristiani cui Giovanni scrive hanno sperimentato nel tempo la vittoria sul mondo, esperienza che in questo momento di crisi ecclesiale, può scemarsi.

Per quanto riguarda la descrizione di Giovanni di “gruppi”, bisogna chiedersi: a chi sta pensando Giovanni di scrivere? Sebbene vi siano esegeti del calibro di Agostino, che sostiene la triplice caratterizzazione della totalità dei cristiani, divisi in nuovi nati in Cristo, in giovani più avanti nella fede e in padri, ossia quel gruppo di cristiani che ha raggiunto un buon livello di maturità spirituale, tuttavia, l’uso diversificato delle parole usate da Giovanni, tradotte in italiano con la semplice parola “figliuoli”, fanno pensare alla totalità della chiesa, a cui Giovanni si rivolge con paterna sollecitudine. Le parole greche sono “teknia” e “paidia”, intendendo con essi l’appartenenza genitoriale. Nel nostro caso le parole hanno una valenza spiritualizzata, riferendosi alla nuova nascita e l’ubbidienza a Dio nel tempo attraverso Cristo.

Detto questo, nelle chiese giovannee vi sono i “Padri”, ossia i cristiani maturi che hanno fatto e che continuano a fare l’esperienza della conoscenza di Cristo, la Parola “preesistente”, che si è autorivelata a loro nel processo storico della Sua incarnazione, morte e risurrezione.

Vi sono i giovani, cioè, coloro che sono nella fede in divenire, che hanno vinto il maligno, ossia hanno rinunciato alla vecchia naturalità dominata dal peccato, artefice del quale è il Maligno, espressione diversificata di intendere Satana. Essi lottano caparbiamente e coraggiosamente, esternando quell’energia vitale trasmessa dalla Parola di Dio, che li rende vittoriosi sul Maligno. Va da sé che la divisione della chiesa giovannea in due gruppi è di natura catechetica: ambedue i gruppi, o meglio, la totalità della chiesa è sempre in divenire, i padri continuano a lottare contro le attrattive mondane e i giovani, progrediscono nella fede, acquisendo una quotidiana, costante maturità.

I giovani e i padri guerreggiano contro il mondo (1°Giov.2:15-17)

Il tema di questa sezione è l’ostilità tra Dio e il mondo. Il messaggio giovanneo ruota su una affermazione fondamentale pronunciata all’inizio dell’epistola: “Dio è luce” (1:5). Da qui l’imperativo: “Non amate il mondo né le cose del mondo” (2:15).

E’ un’espressione negativamente forte. Qualcuno può dire: “ Giovanni è in netto contrasto con il pensiero di Gesù, riferendosi alla frase dell’evangelo: …“Poiché Iddio ha tanto amato il mondo, che ha dato il Suo Unigenito Figlio, affinché chiunque crede in Lui non perisca, ma abbia vita eterna”. (Giov. 3:16).

Siamo di fronte al significato ambivalente della parola “mondo” (gr. Kosmos). Se per “mondo” s’intende, in senso lato, il creato, l’universo, esso di per sé è buono, perché esso è l’opera di Dio, che, tuttavia, è stato deturpato dall’entrata del male per la folle caduta dei progenitori dell’uomo.

Se, invece, si definisce “mondo” la convivenza sociale degli uomini, vogliosi di superbo protagonismo, dominati da norme etico-sociali intraterrene, in cui prevale l’edonismo sguaiato, l’avidità del guadagno facile e della ricchezza disonesta, la sopraffazione del debole, la violazione dello stato di diritto, la parola “mondo” ha un’inquietante accezione negativa.

Se Gesù parla di amore divino per il mondo, egli intende la benevola mano di Dio di afferrare il braccio dell’uomo immobilizzato dalle putride acque stagnanti e melmose dell’esistenza dominata dal peccato, dal male e dalla morte, attraverso l’evento salvifico di Cristo. Dio ama l’uomo, ma non il male virulento di cui l’uomo è capace.

E’ doveroso porsi la seguente domanda: Che cosa ha in mente Giovanni, quando menziona la parola “mondo? E’ il perfido sistema fatto d’inganni, di vessazione, di piaceri disordinati e depravati, in cui domina l’autoesaltazione umana, la superba pretesa di divinizzazione dell’uomo (cfr. Rom 1:21-25). Ciò ragionevolmente ricavato dalla “triade diabolica”: la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi, la superbia della vita (v.16).

Analizzando siffatta triplice e tragica condizione umana, possiamo essere ben edotti nella comprensione del mondo, come luogo in cui si consuma la tragedia dell’uomo senza Dio, contro di cui accoratamente Giovanni scrive per non essere risucchiato in esso e a non cadere nella trappola delle sue diaboliche lusinghe.

La bramosia della carne

La parola “concupiscenza” traduce la parola greca “epithumia”, che significa desiderio smodato, incontrollato, libidinoso. Essa assume un significato più ampio di quello che riguarda propriamente il desiderio e le pulsioni sessuali. La bramosia dell’uomo naturale è la radice di ogni male. Giovanni condanna che il desiderio di beni materiali, intellettuali e spirituali sono portati a oggetti estremi del desiderio. Penso che Giovanni faccia echeggiare le parole ammonitrici di Gesù: “Chi ama padre, madre, figli, beni più di me, non è degno di me”.

La bramosia degli occhi

Mentre la bramosia della carne è un impulso peccaminoso insito nella natura umana, la bramosia degli occhi è un impulso, che nasce dall’esterno attraverso l’azione dello sguardo lascivo, lasciandosi attrarre dall’aspetto esteriore delle cose, senza investigare sul loro valore reale.

Nel Vecchio Testamento abbiamo alcuni episodi di bramosia degli occhi: Eva valuta l’albero proibito come bello da vedere, Acan osserva con cupidigia tra le spoglie un bel mantello di Scinear, Davide guarda con lascivia Bath-Sheba al bagno (Gen.3:6;Gios. 7:21; 2^Sam. 11:2). Si può affermare che la bramosia degli occhi e quella della carne s’inter-cambiano. Forse il guardare è l’atto veicolante gli impulsi del desiderio ardente di piacere, di ricchezze, di onori insiti nella carne umana.

La superbia della vita

La parola “greca” che è resa in italiano con “superbia” è “alozeneia”, significando vanagloria. Il vanaglorioso o spaccone è un personaggio tipico della commedia antica, è colui che ama raccontare di essere un solerte investitore, ma che in realtà ha soltanto un denaro depositato in banca. E’ colui che vive in una casa in affitto, ma racconta alla gente ignara che è sua e che preso la venderà per comperare una più grande per i suoi incontri d’affari. Ciò che colpisce in questo ritratto è l’insistenza del presunto o reale possesso di ricchezze. Insomma, il vanaglorioso ostenta una ricchezza che non ha oppure si vanta realmente di un tesoro che realmente ha, che rende più sicura la sua vita (la parola “bios” che è tradotta con “vita” si riferisce in questo caso alla ricchezza e ai beni materiali che soddisfano la vita biologica).

L’illusorio godimento dei beni materiali, intellettuali e spirituali mondani sono effimeri e caduchi, contrastando con la durevolezza eterna del dono di Dio della salvezza mediante Cristo. Il Cristiano non può vivere la propria esistenza, amando due signori, Dio e Mammona. Egli è chiamato a relazionarsi quotidianamente con il Signore, godendo sobriamente dei beni terreni. Il cristiano è infuturato verso il Regno dei Cieli, che già ha inizio nel presente della comunità dei credenti e degli amanti di Dio (v.17).

Vana e ingannevole è l’esortazione di Friedrich Nietzsche nel suo saggio “Così parlò Zarathustra” ad amare il mondo. In esso ricorrono i temi fondamentali del nostro testo: il piace, il mondo, la caducità, l’eternità, la quale eternità non origine in Dio, ma è vista nella sua dimensione temporale come eterno ritorno a cui dolore e piacere aspirano ardentemente.

Il cristiano è esortato ad avere accorgimento e attenzione nel  gestire il suo rapporto con il mondo, evitando di far propria la condotta di questo mondo, in cui domina l’empietà e le relazioni sono prive d’amore, abbandonando l’Amore che è il fondamento della loro vita.

In conflitto con il mondo, l’amore del cristiano assume nel corso della propria vita la forma fondamentale della croce.

Paolo Brancè

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