Nel 1965 Bob Dylan, in Subterranean Homesick Blues, cantava “You don’t need a weatherman to know which way the wind blows” (non serve un meteorologo per sapere da che parte soffia il vento). Per analogia oggi possiamo affermare che non c’è bisogno di un esperto in glaciologia per sapere come i ghiacciai del pianeta stanno semplicemente fondendo (i ghiacciai non si sciolgono, ma fondono, passando dallo stato solido a quello liquido).
E’ l’odierno dramma vissuto dalle alte montagne dell’Asia (HMA, High-Mountain Asia), dall’Himalaya a sud e a est all’Hindu Kush a ovest e al Tien Shan a nord. Comprendendo , oltre all’altopiano del Tibet, anche le sub-catene del Karakorum, del Pamir-Alay e del Kunlun. Nel loro insieme, quello che viene definito il “terso polo”. Fonte di alimentazione per gran parte del sistema fluviale asiatico (Indo, Brahmaputra, Gange, Yangtze, Fiume Giallo, Mekong, Salween…). Ma, a causa del cambiamento climatico, l’Asia meridionale sta rischiando di perdere almeno il 75% del volume dei suoi ghiacciai entro questo secolo.
Un processo ormai irreversibile e forse ancora più accelerato nell’Hindu Kush. Stando almeno all’accorato appello lanciato dal primo ministro del Pakistan al summit di Baku. Ricordando quanto i cambiamenti climatici estremi abbiano colpito il suo Paese, in maniera sproporzionata rispetto alle responsabilità in materia di emissioni. A
titolo di esempio, le inondazioni monsoniche del 2022 che hanno causato migliaia di vittime, milioni di sfollati e danni economici per circa 30 miliardi di dollari. Eventi in sintonia con un fatto incontestabile: negli ultimi dieci anni il ghiaccio dell’Hindu Kush si è ridotto del 65% rispetto al decennio precedente.
Gianni Sartori
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