Palermo è la città dove l’assurdo non è una categoria filosofica, ma una condizione esistenziale. Albert Camus avrebbe potuto scrivere Il mito di Sisifo passeggiando per i vicoli del Capo o seduto in un bar di piazza Politeama, osservando l’incessante fluire di una città che sembra eternamente impegnata a fare e disfare, costruire e distruggere, senza mai giungere a una conclusione.
Palermo è una città che si muove, eppure è sempre ferma. Se qualcuno ti chiede indicazioni per arrivare al Teatro Massimo, non è improbabile che risponda: “Vai dritto e gira quando finisce il sole.” È una città dove il tempo è relativo, come avrebbe detto Einstein, e dove «il futuro è solo una vaga possibilità», per citare Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Qui il tempo è sospeso, non nel modo magico che ispira i poeti, ma in un modo che confonde le vite quotidiane.Una politica al profumo di zagara
Palermo è la città dove i politici locali sanno gestire l’assurdo come se fosse un’arte. Prendiamo ad esempio il celebre aforisma di Giulio Andreotti, secondo cui «il potere logora chi non ce l’ha». Ecco, a Palermo, il potere non logora nessuno. O meglio, non logora chi sa adattarsi alla maestosa lentezza della città, al sistema di favori e di connivenze che rende tutto possibile, anche l’impossibile. È come se, nel cuore della Sicilia, la politica si fosse mescolata al profumo di zagara, un misto di dolcezza e veleno che stordisce i sensi e acceca la ragione.
Ma sarebbe troppo facile ridurre Palermo solo alla sua politica. È una città di straordinaria bellezza, dove la cattedrale normanna sorge come una sfida alla logica stessa. È un edificio che sembra dire: “Sì, siamo sopravvissuti agli arabi, ai normanni, agli spagnoli, ai bombardamenti della guerra, ma non a noi stessi.” E forse è proprio questa la bellezza di Palermo: il fatto che continui a sopravvivere, a resistere, nonostante tutto. George Orwell scrisse che «vedere ciò che è di fronte al nostro naso richiede un grande sforzo». A Palermo, questo sforzo è estremo: bisogna saper vedere la bellezza oltre il caos, la grandezza nell’abbandono.
Gli intellettuali hanno sempre avuto una relazione difficile con Palermo. Sciascia, nato a Racalmuto, guardava alla città con quella misto di disincanto e ironia che solo un siciliano può comprendere. “A Palermo si può tutto, e il contrario di tutto,” avrebbe potuto scrivere, perché qui le regole esistono solo per essere ignorate. Eppure, nel momento stesso in cui tutto sembra crollare, Palermo riesce a risorgere dalle proprie ceneri, come una fenice stanca, forse, ma sempre determinata.
L’arte di arrangiarsi
Palermo è la città dove l’arte di arrangiarsi è elevata a sistema di vita. I siciliani hanno una straordinaria capacità di cavarsela in ogni situazione, ma non nel senso pratico che potrebbe suggerire un manuale di sopravvivenza. No, a Palermo si vive con una nonchalance che sfida ogni logica. “Facciamo domani quello che avremmo dovuto fare ieri” potrebbe essere il motto ufficioso della città. Jean-Paul Sartre avrebbe amato Palermo, non tanto per la sua bellezza, ma per la sua capacità di rendere l’assurdo parte della quotidianità.
In questo, Palermo rappresenta la quintessenza dell’esistenzialismo siciliano: vivere significa sopravvivere a un sistema che non funziona, e farlo con un certo stile. È come se tutti fossero attori in una grande commedia dell’assurdo, dove le regole del gioco cambiano continuamente e nessuno sa bene chi stia dirigendo lo spettacolo.
Il fascino dell’assurdo
Palermo non si può spiegare, si può solo vivere. E non è un caso che chi vi nasce, o chi vi trascorre un po’ di tempo, ne resti per sempre segnato. Come diceva Goethe: «L’Italia senza la Sicilia non lascia alcuna immagine nell’anima. Qui è la chiave di tutto.» La chiave di tutto, certo. Ma una chiave che Palermo custodisce gelosamente, lasciando che solo chi accetta il paradosso possa davvero trovare la porta giusta.
Davide Romano