Per un’antropologia cristiana della psicoterapia

Di questi giorni la notizia riportata dai media del Frate, psicologo e psicoterapeuta, per abuso in terapia: (https://www.ilmessaggero.it/vaticano/papa_francesco_abusi_vaticano_cappuccini_psicoterapia_gestalt_salonia-3996561.html).

La riflessione non è sul frate, né sul fatto, ma sull’antropologia della psicoterapia di cui il frate è esperto: la psicoterapia della Gestalt. Questa è un metodo psicoterapico che rientra nelle correnti umanistiche esistenziali dato i suoi presupposti. Nata negli Stati Uniti negli anni ’50, grazie alle intuizioni dello psicoanalista tedesco Frederick Perls, e di un gruppo di intellettuali statunitensi, tra cui Paul Goodman e Isadore From. Con il termine tedesco Gestalt (Gestalten) si intende “dare struttura, forma, totalità significativa”. Tra i suoi presupposti, la terapia della Gestalt, valorizza il diritto alla diversità pur mettendo al centro il “contatto autentico con gli altri e se stessi in un andamento consapevole dove ciascuno è responsabile di se stesso. In definitiva si tratta di ricercare una coerenza interna del proprio “essere-al-mondo”. Ma se questa coerenza interna collude con gli altri, come psicologo e psicoterapeuta ad orientamento cristiano, mi chiedo quale antropologia dell’uomo? Quale possibile benessere nell’autenticità relazionale: «Che giova infatti all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde la propria anima?» (Marco 8, 36). Eppure generazioni di psicologi e psicoterapeuti si sono formati con la così detta “preghiera della Terapia Gestaltica” (F. Perls): “Io sono io. Tu sei tu. Io non sono al modo per soddisfare le tue aspettative. Tu non sei al mondo per soddisfare le mie aspettative. Io faccio la mia cosa. Tu fai la tua cosa. Se ci incontreremo sarà bellissimo; altrimenti non ci sarà stato niente da fare” (F. Perls). Sebbene nell’intenzione essa affermi l’assunzione al senso di responsabilità, senza una visione spirituale dell’altro, ne annulla il senso della presenza dell’altro, mirando ad accrescere solo se stessi e dimenticando il senso della complementarietà/conferma espressa, in primis, dalla visione cristiana: «Voi chi dite che io sia?» (Matteo 16, 15) ripresa da psichiatri esistenziali come Laing, Sullivan, Berne, Rogers, Allpor, Frankl che ne esaltano il valore della presenza dell’altro. Il problema di molte correnti di pensiero psicoterapeutico è l’antropologia di riferimento che considera l’uomo solo secondo una visione orizzontale della relazione Io-Tu, io- altro, io e me stesso. E molta psicologia si è soffermata a curare questo tipo di relazione. Ma c’è anche una visione verticale della relazione che incide sul proprio benessere e di cui si fonda l’antropologia cristiana (P Riccardi in https://www.notiziecristiane.com/fallimenti-relazionali-e-crisi-di-coppie). Questa concepisce l’uomo in relazione al trascendente, a Dio secondo la verticalità e in orizzontalità, tipica delle scienze psichiche. E’ questa un’antropologia chiara, definita e di rispetto dell’altro. La mancata di un’apertura all’altro, tante volte spinta da una pseudo psicologia dell’Io, ne annulla il senso e il significato della intimità relazionale. Oggi si parla sempre più di relazione. La psicologia di relazione, i problemi di relazione, la relazione madre figlio, la relazione con gli altri, la relazione terapeutica. Dalla relazione derivano molti problemi psicopatologici. Non possiamo chiudere gli occhi di fronte al fatto che le relazioni sono instabili. E’ un dato di fatto che le persone vivono le relazioni come un qualcosa di non statico, di fuggevole, di liquido, per affermare il principio del sociologo Bauman (2006). In una relazione, è naturale la ricerca della sicurezza, di cui in parte deriva da se stessi, dal proprio mondo interno e in parte dalla presenza dell’altro. I protagonisti dei fallimenti relazionali, delle coppie in crisi, delle famiglie in crisi sono le persone; è l’uomo.

L’Antropologia Biblica parte dall’assunto che l’essere umano è ad immagine e somiglianza di Dio (Gen. 1,26-27). In termini medico scientifici possiamo paragonare l’immagine al fatto costituzionale dell’essere: l’intelletto, la volontà, la predisposizione interiore, la motivazione al bene. L’immagine come un qualcosa di costituzionale, mentre la somiglianza un qualcosa da conquistare personalmente con l’impegno al tendere verso il bene, verso l’amore, verso l’apertura all’altro. E trova espressione nell’altro caposaldo antropologico cristiano: «Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato» (Gv 15, 9) e «non di solo pane vive l’uomo ma di ogni parola di Dio» (Luca 4, 4), sembrano incarnare a perfezione la doppia relazionalità. Se molta psicologia clinica si è soffermata sul come migliorare la relazione orizzontale si è sofferma solo su se stessi. Là dove, ad esempio, si esalta il confronto, si stimola ad essere arroccati e a difendere a spada tratta le proprie idee conclude la preghiera della gestalt.

L’uomo del terzo millennio, quello che a mio avviso, ha perso Dio, ha paura e rimuove da se il senso del bene, perdendo se stesso, si arrocca nel suo cuore (Riccardi P., Psicoterapia del cuore e beatitudini ed Cittadella 2018), indurito e sfiduciato del prossimo. Un cuore indurito ci chiude anche nella possibilità di capire: «perché non avevano capito il fatto dei pani, essendo il loro cuore indurito» (Marco 6,52). Pertanto, Gesù, ci invita ad essere aperti alle esperienze con l’altro anche nelle situazioni conflittuali indicando il criterio comportamentali del mettersi d’accordo: «mettiti d’accordo con il tuo avversario, mentre sei in cammino» (Matteo 5, 25), Presuppone, l’antropologia cristiana, lo sforzo di dichiarare i propri intenti, cedere per un punto di incontro e trovare un qualcosa in comune. Contrariamente alla preghiera gestaltica che afferma: «Se ci incontreremo sarà bellissimo; altrimenti non ci sarà stato niente da fare» (F. Perls). Quante relazioni scorrono senza la risoluzione di un conflitto solo perché i membri non giungono ad un accordo?

Pasquale Riccardi | Notiziecristiane.com

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