I jihadisti hanno sottratto armi e munizioni all’esercito iracheno e ora tornano in Siria per riconquistare Aleppo. Qual è la strategia di Obama? Qualche ragionevole dubbio sul suo silenzio interessato.
L’Isil cresce e avanza, l’America non fa nulla. Si riassume così quello che è accaduto nel vasto campo di battaglia che va da Aleppo nel nord della Siria a Tikrit nel centro dell’Iraq sei settimane dopo la presa di Mosul e di altre località irachene da parte degli uomini di Abu Bakr al Baghdadi e di altri gruppi armati antigovernativi. E il dubbio che all’amministrazione Obama la deriva verso l’instabilità permanente di due paesi retti da governi centrali in ottimi rapporti con l’Iran non dispiaccia affatto si fa sempre più forte.
I notiziari hanno dato l’impressione che, a parte l’enfatica dichiarazione con cui è stata annunciata la rinascita del califfato il 12 luglio scorso sotto forma di Stato islamico governato dall’emiro dell’Isil, niente di rilevante dal punto di vista militare sia accaduto negli ultimi tempi e che l’offensiva jihadista si sia arrestata a rispettabile distanza da Baghdad. Non è affatto così. Mentre il fronte iracheno è quasi immobile, quello siriano risuona di battaglie. I jihadisti hanno spostato uomini e mezzi da ovest verso est, riattraversato la vecchia frontiera fra Iraq e Siria carichi delle armi leggere e pesanti che hanno sottratto alle truppe irachene in fuga, e stanno combattendo per riportarsi su Aleppo, da dove erano stati cacciati nel gennaio scorso non dalle truppe governative, ma da una coalizione di forze ribelli.
In questo momento stanno combattendo contro le milizie armate curde del Pyd nella regione di Ain al Arab al confine con la Turchia, dopo avere strappato la città di Der Ezzor (tranne alcuni quartieri e un aeroporto militare ancora controllati dalle forze di Damasco) e l’intera omonima provincia agli alqaedisti di Jabhat al Nusra che da due anni le avevano occupate in grandissima parte. L’obiettivo sembra essere quello di creare una continuità logistica che permetta di muovere le forze dell’organizzazione lungo una direttrice est-ovest da Mosul fino ad Aleppo. Il Pyd è il principale partito curdo siriano dotato di un’ala armata, e politicamente si mantiene in equilibrio non essendo schierato con nessuno dei protagonisti del conflitto siriano: né col governo, né coi ribelli. Jabhat al Nusra è la filiale locale di Al Qaeda, riconosciuta da Ayman al Zawahiri in persona. Inizialmente in Siria operava in sintonia con Isil, ma la pretesa di al Baghdadi, nell’aprile del 2013, di fondere le due organizzazioni, il rifiuto di Jabhat al Nusra di sottomettersi e il sostegno di al Zawahiri alla linea di quest’ultima hanno creato fra i due gruppi terroristici un antagonismo che dall’inizio di quest’anno si è trasformato in scontro armato per la supremazia.
Nonostante tutti gli altri gruppi della ribellione (principalmente il fatiscente Libero esercito siriano e i salafiti del Fronte Islamico) si siano schierati con Jabhat al Nusra, Isil sta avendo la meglio. Da gennaio ad oggi 8 mila ribelli sono caduti in battaglie fra gli uomini di al Baghdadi e combattenti di tutti gli altri gruppi, per la grande soddisfazione del governo di Damasco. Che ha facilitato il compito di Isil continuando a contrattaccare le posizioni del Libero esercito siriano (Les), di Jabhat al Nusra e del Fronte islamico, ma non quelle dello Stato islamico in Iraq e Levante.
Tattica politico-militare molto facile da comprendere: Isil è l’unico gruppo armato di oppositori del regime stabilmente impegnato a combattere gli altri gruppi ribelli per sottrarre loro territorio e risorse; non c’è bisogno di nessuna ipotesi complottistica per spiegare la reticenza delle forze governative a colpire i più estremisti dei jihadisti: il nemico del mio nemico è il mio amico. Fino a quando non diventa troppo forte. L’aviazione di Damasco ha dedicato alcuni dei suoi più recenti raid alle postazioni dell’Isil nella provincia di Der Ezzor dopo la caduta di Mosul.
Un’attrazione irresistibile
Non c’è bisogno di ipotesi complottistiche nemmeno per spiegare la guerra pendolare di Isil, prima in Iraq e adesso in Siria. Fermo restando che l’obiettivo dell’organizzazione è uno Stato islamico che abbracci i due paesi, Isil ha bisogno di dare la priorità al rafforzamento del suo insediamento in Siria, dove ha ampi margini di espansione. Con le forze attuali non è in grado di impadronirsi di Baghdad, anche se potrebbe da subito precipitare la capitale in una condizione di anarchia. Il problema di Isil in Iraq sono le alleanze: le hanno permesso di cacciare le forze governative da molte località del paese, ma non le permetterebbero di vincere e dominare incontrastata.
I successi iracheni di Isil sono stati resi possibili dall’esasperazione della minoranza sunnita, emarginata, oppressa e mal governata dagli esecutivi a egemonia sciita di Nouri al Maliki soprattutto dopo il ritiro delle truppe americane nel 2011. L’antenato dell’Isil, che dopo aver cambiato vari nomi si chiamava Al Qaeda in Mesopotamia, fu messo alle corde nel 2006-2008 dal movimento del Risveglio sunnita, chiamato anche Figli dell’Iraq, coltivato dagli americani che fornirono armi, addestramento e denaro a decine di migliaia di elementi delle tribù della provincia di Anbar e poi delle altre province a forte presenza sunnita. Al momento del ritiro degli americani, al Maliki si è trovato con 100 mila civili sunniti in armi da stipendiare. Ha deciso di assorbirne 20 mila nella funzione pubblica e di mandare gli altri al diavolo.
Nello stesso periodo sono iniziate le manifestazioni di piazza e gli accampamenti di protesta dei sunniti contro il governo centrale: repressi con la violenza e gli arresti. Assieme all’Isil hanno ripreso vitalità tutte le guerriglie sunnite che avevano sfidato gli americani dopo l’occupazione del 2003: l’Esercito islamico dell’Iraq, l’Esercito dei Mujaheddin dell’Iraq, i nostalgici di Saddam Hussein riuniti negli Uomini dell’esercito dell’Ordine di Naqshbandia… Tutti costoro e una parte dei ricostituiti tribali Consigli del Risveglio sunnita hanno dato vita a un’alleanza tattica con Isil che ha permesso di mettere in crisi il controllo delle forze armate governative sull’insieme del territorio nazionale nel giugno scorso. Gli stessi gruppi sunniti che in passato avevano disarticolato l’Isil, oggi appoggiano la sua sfida al governo di Baghdad. Ma gli uni e gli altri sanno che si tratta di un’alleanza fragile e opportunistica, già esposta a tensioni a Mosul e altrove.
In Siria è diverso, l’Isil sembra esercitare un’attrazione irresistibile: un anno fa i suoi combattenti sul posto erano circa 3 mila, oggi sono stimati in 10 mila, risultato non solo della campagna di reclutamento mondiale lanciata sui social media, ma di migliaia di defezioni dagli altri gruppi ribelli verso quello che appare meglio dotato di armi e denaro in contanti. Mentre i 500 milioni di dollari che Obama ha decretato di spendere per alimentare ribelli “filo-occidentali” contro il regime di Bashar el Assad non si sa se e quando saranno erogati: il Pentagono ha fatto sapere al Congresso (che deve approvare l’iniziativa presidenziale) che con quella cifra può addestrare al massimo 2.300 uomini nell’arco di 18 mesi, che ci vorrà molto tempo a trovare aspiranti guerriglieri sicuramente refrattari alle sirene jihadiste e che la Giordania non è più disponibile a ospitare campi di addestramento americani per ribelli siriani da quando Jabhat al Nusra si è insediata nella regione di confine. Tutti sono d’accordo che per un anno almeno non succederà niente.
Se tattica e strategia dell’Isil sono chiare, quelle degli Stati Uniti sono oggetto di speculazioni. A sei settimane dalla conquista di Mosul e altre località da parte dell’Isil e compagni, i droni americani che potrebbero colpire le piazzeforti ribelli restano nei loro hangar. In precedenza le autorità irachene avevano chiesto più volte a quelle americane di intervenire con bombardamenti mirati delle forze ribelli. La prima volta era stata nel dicembre scorso, l’ultima, per bocca del premier al Maliki in persona, l’11 maggio scorso.
Obama, che nel corso dei suoi due mandati ha ordinato circa 450 attacchi di droni che hanno causato 2.400 vittime in Pakistan, Yemen e Somalia (paesi che non sono in guerra con gli Stati Uniti), aveva fatto rispondere che l’intervento diretto americano in Iraq doveva considerarsi esaurito e che i droni vengono utilizzati contro gruppi terroristici che complottano contro gli Stati Uniti. Che era un po’ come inviare all’Isis il messaggio che non doveva temere nulla dagli Stati Uniti finché si concentrava a colpire obiettivi iracheni.
Discorso speculare ha tenuto l’Isil quando, dopo la presa di Mosul, commentatori ed esponenti politici americani hanno cominciato a invocare un intervento muscolare da parte di Washington contro i jihadisti vittoriosi: i social media si sono riempiti di messaggi che avvertivano che l’Isil avrebbe reagito a un intervento diretto in Iraq contro le sue posizioni con attacchi terroristici sul suolo americano. Che è come dire: continuate a non fare niente contro di noi come avete fatto finora, e non vi succederà niente.
Dopo la presa di Mosul e le voci di un imminente assalto a Baghdad, gli Stati Uniti hanno dovuto architettare nuove scuse per giustificare la loro inazione. Che si affacciano sulla pubblica piazza attraverso le colonne del New York Times: il 14 luglio in un articolo di prima pagina si poteva leggere che «senza un controllo aereo avanzato americano sul terreno, attacchi aerei potrebbero accidentalmente uccidere i leader tribali di cui ci potrebbe esser bisogno» per arrivare a una soluzione politica della crisi; il giorno dopo un altro articolo di prima pagina spiegava che «Un documento riservato sulle forze di sicurezza irachene conclude che molte unità sono così profondamente infiltrate da informatori dei gruppi sunniti estremisti o da personale sciita al soldo dell’Iran, che consiglieri americani incaricati di assistere le forze di Baghdad potrebbero correre rischi per la loro sicurezza».
Sarebbero queste le ragioni per le quali l’amministrazione ha inviato finora soltanto 500 uomini in due tranches, sei elicotteri, alcuni droni da sorveglianza e qualche missile Hellfire. Ma i veri motivi sono di natura politica: gli Stati Uniti non interverranno seriamente in difesa del governo di Baghdad fino a quando esso non cambierà le politiche decise da al Maliki negli ultimi anni. E cioè: il rifiuto di un’alleanza strategica con Washington, l’avvicinamento all’Iran (grande sponsor del primo ministro sciita), l’emarginazione dei sunniti dai posti di potere e la repressione delle loro proteste.
Quest’ultimo punto gli Stati Uniti l’hanno in comune coi capi delle tribù sunnite che avevano dato vita ai Consigli del Risveglio. Costoro sono disposti a rompere le loro recenti alleanze con l’Isil o a uscire dalla neutralità e combattere contro i terroristi, ma non prima che il governo centrale di Baghdad abbia accolto le principali richieste dei partiti sunniti: federalismo, autonomie regionali, posti di potere nella pubblica amministrazione e nell’esercito. Né gli americani né le tribù sunnite chiedono ufficialmente la testa di al Maliki, ma lasciano intendere che la sua uscita di scena faciliterebbe le cose.
Chi farà la prima mossa?
La risposta del primo ministro uscente non si è fatta attendere: il 16 luglio attraverso un portavoce ha fatto sapere che non accettava che un intervento aereo americano fosse condizionato alle sue dimissioni. Tre giorni prima sempre sul New York Times l’ex ambasciatore americano in Iraq Zalmay Khalilzad aveva scritto: «Da ambasciatore ho avuto rapporti diretti con al Maliki (nella foto con Obama), e so che resisterà ostinatamente a ogni tentativo di rimozione. (…) Washington non deve abbandonare i suoi sforzi per aiutare l’Iraq a formare un governo di unità nazionale, ma deve anche lavorare ad alternative realistiche nel caso che l’Iraq si disintegri».
Da come si stanno muovendo, gli americani sembrano essersi convinti che al Maliki e i suoi non cambieranno politica. Danno per finito l’Iraq e si ingegnano di trasformarlo in una trappola per gli iraniani. Agiscono in modo da precipitare un intervento militare di Teheran in Iraq in soccorso del governo ultrasciita di al Maliki. I contraccolpi per l’Iran sarebbero tutti negativi: si impantanerebbe in un conflitto senza vie di uscita e si ritroverebbe contro tutti i paesi arabi a maggioranza sunnita. La Repubblica islamica è consapevole di queste prospettive, e infatti fino ad ora ha inviato in Iraq solo un numero limitato di consiglieri militari presi dalla Forza Qods, l’unità delle forze speciali iraniane incaricata delle missioni all’estero.
In questo momento America e Iran ricordano due ciclisti su pista impegnati in un surplace, il gesto tecnico che vede le biciclette immobili in equilibrio. Il primo che si muove perde di sicuro la volata.
Rodolfo Casadei
Tratto da: http://www.tempi.it/
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