Pornografia e violenza: i danni del lockdown di cui non si parla

Uno degli errori più madornali, eppure, più ricorrenti dell’uomo del XXI secolo è quello di ragionare sulle problematiche del proprio tempo “a compartimenti stagni”.

Il nostro modo di pensare è sempre più frammentario e poco propenso sia all’approfondimento che all’unitarietà dei saperi, che invece è tipica del pensiero cristiano tradizionale, a partire da San Tommaso d’Aquino.

Una visione miope del problema

Una declinazione concreta di questa dissonanza cognitiva è riscontrabile, ad esempio, nel modo in cui si affrontano tematiche delicatissime come quelle della violenza carnale o del femminicidio.

È noto come la narrazione prevalente sia totalmente sbilanciata su una serie di stereotipi tipici del neofemminismo: il maschio è aggressore e prevaricatore per definizione, le donne non devono fidarsi dell’altro sesso, la radice di tutti i problemi è nella famiglia patriarcale, e via discorrendo.

Argomenti di una povertà inaudita, destinati a generare un dibattito altrettanto misero, utile soltanto a una spettacolarizzazione di cui una persona di buon senso difficilmente sentirà l’esigenza.

L’allarme di D’Avenia

Una nebbia fitta che, per essere dipanata, necessita di strumenti alternativi e di considerazioni politicamente scorrette. Uno di questi “fari” utili a far luce sul problema è stato acceso nei giorni scorsi da Alessandro D’Avenia, sul Corriere della Sera.

Nella sua rubrica Ultimo banco, il docente e scrittore riporta la dichiarazione choc di un’amica psicoterapeuta: “Il primo rapporto sessuale di molte adolescenti che vengono in cura da me è stata una violenza”.

Secondo l’anonima specialista consultata da D’Avenia, l’educazione affettiva degli adolescenti di oggi risulterebbe profondamente deformata dalla fruizione indiscriminata di video pornografici.

I danni ulteriori del lockdown

Se fin dall’età di 12-13 anni, nell’indifferenza totale di genitori e insegnanti, un ragazzo inizia a sviluppare una dipendenza da contenuti morbosi sempre a portata di cellulare, le conseguenze saranno comportamenti peculiari e preoccupanti. Nessuno, però, interviene e l’educazione sentimentale dei più giovani finisce al millesimo posto tra le priorità dell’uomo contemporaneo.

Si dà per scontato tutto e il massimo della preoccupazione che può venirne fuori è quale potrebbe essere la reazione del fanciullo a un eventuale sequestro del suo ‘giocattolino magico’. O quanto a lungo potrà tenere il muso di fronte ad una ramanzina sull’utilizzo smodato dello stesso.

La pandemia è in corso da quasi un anno e mezzo, fiumi d’inchiostro sono stati spesi riguardo ai vaccini, alle conseguenze economiche del lockdown, ai mancati ristori, ecc. Tutte questioni prioritarie, per carità ma non da giustificare la totale messa in ombra dei risvolti educativi.

A quanti ‘esperti’ è importato di come bambini e ragazzi trascorrevano – o, in alcuni casi, ancora trascorrono – il loro isolamento forzato in casa? Se durante la didattica a distanza riuscivano a mantenere l’attenzione oppure si distraevano nel chattare? Qualcuno si è preoccupato di quante ore in più i ragazzi avrebbero trascorso al telefonino?

Numeri impressionanti

I dati menzionati da Alessandro D’Avenia sul Corriere della Sera parlano da soli ed è pressoché impossibile non attribuirne le cause dirette o indirette al lockdown. “Nel 2019, 42 miliardi di visite, 115 milioni al giorno, saliti a 130 milioni nel 2020. Il materiale disponibile sul sito equivale a 169 anni di video. Negli Usa ogni secondo 28mila persone consumano porno (il 61% da smartphone) e ogni secondo vengono spesi 3mila dollari per videochat private. Il 90% dei ragazzi tra 8 e 16 anni consuma giornalmente pornografia in rete e, quasi sempre, la prima volta è accaduto casualmente (l’età media si è abbassata a 9 anni). Il 74% dei consumatori abituali sono uomini”. Qualunque commento è superfluo.

D’Avenia, poi, offre un’interpretazione assai lucida e pertinente del fenomeno. “Gli iper-corpi del porno – scrive – sono macchine di potere dall’orgasmo continuo e perfetto, che impongono un immaginario di dominio che esclude la fragilità, le paure, i difetti dei corpi veri. Il sesso, dialogo che raggiunge ogni angolo dell’anima e del corpo, proprio grazie all’accettazione totale e all’ascolto reciproci, viene ridotto a illusione priva della sua ordinaria e più raramente festiva realtà, perché serve solo a eccitare chi guarda”.

Con la pornografia, la delicata opera di scoperta dell’altro sesso viene brutalizzata, il dialogo rimpiazzato da “un monologo, spesso violento, in cui l’altro è solo uno strumento”. Se l’altro diventa un oggetto, è evidente che chi lo possiede sarà travolto da un’animalesca voglia di dominare, di comandare. Non più un mondo di fratelli e sorelle ma di schiavi e padroni, magari dai ruoli interscambiabili.

Quello che in TV e a scuola non dicono

La pornografia, si diceva. Avete mai sentito le femministe d’oggi criticarla? Eppure, fino a prova contraria, nonostante il degrado morale dilagante, pochissime donne sarebbero disposte a diventare pornodive. Perché la pornografia è oggettivamente contraria alla dignità della donna (e anche dell’uomo).

Con buona pace del gender e del ddl Zan, sarebbe utile ricordare che maschi e femmine hanno un approccio completamente differente alla sessualità: forzare questa diversità significherebbe esercitare una violenza.

Criticare la pornografia, poi, è diventato fuori moda. Non tanto perché se lo fai vieni accusato di bigottismo ma perché, se inizi a chiedere delle restrizioni, andrai ad intaccare un business pari a circa 30 miliardi di dollari. Ma di tutto questo in televisione e, meno che mai, a scuola, non ve ne parleranno.

Luca Marcolivio

 

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