Prove tecniche per un stato di polizia… preludio al microchip?

La giustificano come una misura necessaria per contrastare il terrorismo. In realtà penalizzano la privacy dei cittadini per dare ancora maggiore potere alla magistratura sulle nostre vite. La motivano come una misura necessaria per prevenire gli abusi in Rete. In realtà sacrificano la libertà del Web sull’altare del controllo delle informazioni e delle opinioni per finalità subdole.

E’ tecnicamente corretto parlare di due interventi legislativi liberticidi a proposito di quelli appena approvati o che si preparano per la prossima settimana al Senato. C’è solo da sperare che vengano modificati, anche in misura minima, in maniera tale da dover tornare alla Camera per una nuova lettura e approvazione. A quel punto si arenerebbero e, con la legislatura agli sgoccioli e l’imbuto di provvedimenti più urgenti, finirebbero nel dimenticatoio. Dal punto di vista formale risultano inseriti nelle “Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione Europea-Legge europea 2017”, come se fossero innocue e innocenti norme per adeguare il nostro apparato normativo a quello Ue. Ma sul piano sostanziale producono effetti devastanti sulla tutela dei diritti individuali, in particolare quello alla privacy.

La prima e più allarmante delle due norme, che deroga peraltro al Testo Unico sulla privacy, in ragione degli allarmi terroristici, estende a sei anni la durata della conservazione dei dati telefonici e di traffico internet degli italiani. Fino ad oggi il limite di conservazione previsto dalle norme vigenti è di due anni per le telefonate, sei mesi per quelle senza risposta, e un anno per i metadati della navigazione online. Al di là dei devastanti effetti economici (ci vorranno decine di milioni di euro per creare nuovi archivi digitali e potenziare le misure di sicurezza), si tratta di una seria ipoteca sulla nostra riservatezza. Sia il Garante della privacy italiano, Antonello Soro, sia il Garante europeo, Giovanni Buttarelli hanno lanciato il grido d’allarme. Queste novità in materia di data retention (conservazione dei dati) riguardano data, ora, durata, mittenti, destinatari, telefonate perse, siti internet. Lasciare questi dati nelle mani dei provider (Tim, Vodafone, Fastweb) per ben sei anni equivale alla legittimazione di una sorta di sorveglianza di massa. Gli operatori telefonici e di rete, per ragioni di repressione di attività legate al terrorismo, dovrebbero dunque conservare i dati di tutti i cittadini italiani, in attesa che le autorità inquirenti, decidano di chiedere informazioni su quei dati, a prescindere dalla effettiva commissione di un reato.

Tutto ciò che abbiamo detto o fatto col telefono, le chat o internet potrebbe risultare accessibile per sei anni da parte degli operatori privati che ci consentono di accedere alla Rete e che in qualunque momento dovrebbero essere disponibili ad aprire i loro archivi alla magistratura. Senza contare che quei dati potrebbero diventare preda di hacker o merce di scambio per finalità di promozione commerciale e profilazione selvaggia. Le nostre vite digitali, insomma, finirebbero nelle mani di un pauroso duo provider-toghe. Questa misura, che, sarà un caso, è stata promossa dal responsabile giustizia del Pd, Walter Verini, molto vicino al Ministro della Giustizia, Andrea Orlando, rischia di passare nella sua versione integrale al Senato. E, secondo taluni, è a forte rischio incostituzionalità e ci allontana dall’Europa, considerato che molteplici sentenze della Corte europea, applicando direttive in materia, hanno accorciato i termini di conservazione dei dati. Si è fatto notare da più parti, anche al vertice di Cardiff, che nella maggioranza dei casi l’interesse delle forze di polizia riguarda solo gli ultimi sei mesi di traffico. Dunque appare ampiamente sproporzionato un prolungamento a sei anni dei termini di conservazione di quei dati.

L’altra misura, che porta la firma di un altro deputato Pd, Davide Baruffi, è ugualmente pericolosa ed è già stata approvata, ma entrerebbe in vigore solo in caso di approvazione definitiva dell’intero testo legislativo. Essa affida all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom) nuovi poteri di controllo preventivo sul Web nei casi di presunta violazione, senza attendere l’autorizzazione del giudice, nonostante le direttive Ue dicano il contrario. Dunque l’Agcom, come semplice autorità amministrativa, potrebbe disporre, non solo la cancellazione del contenuto di un sito, ma anche che lo stesso sito, provider, blog o forum (o anche tutti insieme i soggetti) impedisca che ci siano altre violazioni su internet. La norma si applica a blog, forum e piattaforme social. Il pretesto è il diritto d’autore, ma i risvolti applicativi di questa norma sarebbero pericolosi, quando non devastanti, in termini di censura sulla Rete e di sequestro di spazi virtuali. Essa si tradurrebbe di fatto in un’intercettazione di massa, rendendo leciti invasivi “pedinamenti” e controlli preventivi sugli utenti da parte dei provider, su ordine di Agcom e non dell’autorità giudiziaria. Dunque il paradosso di questo tentativo di colpo di mano del governo Gentiloni e in particolare del Partito Democratico sui diritti della personalità e sulla libertà d’espressione è eclatante: in una norma di adeguamento a leggi europee si inseriscono contenuti che stridono palesemente con le previsioni normative europee e che ci allontanano dall’orientamento del legislatore del Vecchio Continente, ponendoci a rischio di procedure di infrazione.

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