Nella regione dell’Himachal Pradesh ha costruito un rifugio dove ne ospita circa 120 (mucche, bufali – in genere anziani, abbandonati dai contadini perché inservibili – cani, gatti…non ci risultano tigri, ma non si sa mai…magari in futuro…).
Molti di loro potrebbero raccontare storie dolorose di zampe mutilate o di veleni ingeriti.
Non senza problemi per Dipala ovviamente. Per dirne uno, la sua casa è già stata incendiata almeno un paio di volte (pare dai vicini insofferenti)
Questo per introdurre una questione spinosissima (almeno per chi scrive) di cui ho recentemente discusso con vari interlocutori.
Se per qualcuno è solo un “conflitto di interessi”, per altri si tratta di una “contraddizione non risolvibile, perlomeno non in questo contesto sociale”.
Possiamo solo definirlo un “corto circuito”. La notizia dell’allontanamento forzato delle popolazioni indigene (gli autoctoni, conosciuti come adivasi) da territori destinati a far da “santuario” per le tigri in India è fonte di un conflitto, non solo interiore.
La notizia è di qualche mese fa (ma divenuta veramente di pubblico dominio solo da settembre) e sinceramente finora ho avuto qualche difficoltà nell’affrontarla. Strattonato tra l’entusiasmo di qualche conoscente animalista-protezionista e lo sdegno di qualche altro più sensibile alle problematiche dei popoli minacciati, non sapevo come e dove collocarmi.
Del resto è quanto avviene a livello di grandi organizzazioni internazionali. Schierati su fronti opposti si sono ritrovati da un lato WWF e WCS (Wildlife Conservation Society), dall’altro Survival International. Se i primi parlano di “ricollocazione volontaria”, l’altra denuncia quelli che ha definito “sfratti forzati” (se non vere e proprie deportazioni).
Proviamo a mettere un po’ d’ordine.
Sarebbero diverse migliaia (si parla di circa 400mila) gli abitanti dei villaggi minacciati di espulsione (in parte già avvenuta) dai loro territori ancestrali che talvolta corrispondono alle riserve per le ultime tigri superstiti (non più di tremila). In particolare nelle foreste di Nagarhole, Kaziranga,Udanti-Sitanadi, Indravati e Rajaji.
In settembre qui si sono svolte varie manifestazioni di protesta contro la richiesta della NTCA (National Tiger Conservation Authority) ai responsabili della fauna selvatica di 19 stati di espellere gli adivasi dalle riserve.
In una delle più indignate centinaia di adivasi provenienti da una trentina di villaggi si sono ritrovati davanti all’ingresso della riserva di Nagarhole (stato di Karnataka) dove sono previste altre iniziative.
Per gli attivisti pro-adivasi si tratterebbe di “una violazione del diritto degli autoctoni in quanto i nostri popoli non hanno dato il loro consenso e nemmeno sono stati consultati”.
Trasformare per decreto questi territori in parco nazionale, sempre per gli attivisti indigeni, sarebbe “un’intrusione della NTCA”. Accusando poi quelle che definiscono le “mafie protezionistiche come il WWF, la WCS e il WTI”.
Ovviamente il problema esiste. Per le tigri la minaccia di estinzione è incombente.
Quanto agli adivasi, a chi oggi si indigna per la loro sorte andrebbe ricordato che i i problemi principali degli aborigeni non derivano dal felino tigrato. Qualcuno si ricorda dell’Orissa?
Comincio con la situazione generale (non solamente in India) delle tigri, riprendendo quanto già scritto in passato.
Già una quindicina di anni fa, confrontando una carta tematica sulla densità della popolazione in Indonesia (Le Monde diplomatique, novembre 2010) e una carta dell’Asia sulla diffusione della tigre (Ouest France, 28 novembre 2010), coglievo un particolare inquietante. Delle tre sottospecie estinte, due erano vissute in Indonesia.
La tigre di Giava era già scomparsa da 30-40 anni, mentre quella di Bali, la più piccola delle tigri, da oltre 70. Le due aree dell’Indonesia più abitate sono appunto le isole di Giava (su cui vive due terzi della popolazione del paese) e di Bali con oltre 500 abitanti per Kmq. Dove la densità è minore, come a Sumatra (da 30 a 100 per Kmq) e nel Borneo (diviso tra Indonesia e Malesia, meno di 30 per Kmq) qualche tigre riusciva (e forse riesce ancora) a sopravvivere. A Sumatra ne rimanevano in libertà circa 400 esemplari, mentre le tigri della Malesia (in realtà del Borneo) superstiti sarebbero state tra 200 e 400.
Altrove le cose non andavano meglio per il maestoso felino. Per esempio, nella regione del Grande Mekong gli esemplari di Panthera tigris erano ridotti a circa 350. Dieci anni prima, negli anni novanta, erano quattro volte di più. Si calcola che agli inizi del 1900 vivessero in libertà più di 100mila esemplari. Nel 2010, dopo soltanto un secolo, arrivavano a malapena a 3200 sull’intero continenete asiatico.
Ancora nel 2010 un convegno internazionale vedeva riunirsi a San Pietroburgo tredici nazioni “ospitanti”: Russia, Thailandia, Vietnam, Bangladesh, Bhutan, Birmania, Cambogia, India, Cina, Laos, Indonesia, Nepal e Malesia. Tenendo presente che qualche altro esemplare potrebbe sopravvivere nella fascia smilitarizzata tra le due Coree. All’epoca la speranza del Global Tiger Recovery Program era di raddoppiare il numero delle tigri entro il 2022.
Brutti pronostici anche per le tigri dell’India, vittime del 54% degli atti di bracconaggio per rifornire i consumatori cinesi della medicina tradizionale. Sviluppo industriale, costruzione di dighe e apertura di miniere hanno prodotto effetti devastanti. Le 40mila tigri ancora presenti nel 1947, si erano ridotte a 3700 nel 2002. nel 2010 in tutta l’India non sarebbero state più di 1500.
La tigre del Caspio è la terza sottospecie già estinta. Dal pelame chiaro (come la siberiana, ma più piccola), la più occidentale delle tigri è scomparsa verso il 1970. Per sempre.Questo il lugubre epitaffio per il nobile felino. Quanto alle ingiustizie subite dagli adivasi, la lista è altrettanto lunga e sostanziosa. Governi e multinazionali ne hanno fatto strage – letteralmente – per impossessarsi di territori spesso ricchi di minerali (la solita piaga dell’estrattivismo).
Senza tema di esagerare possiamo dire che nei loro confronti sono stati adottati metodi al limite dell’etnocidio. Sia sul piano della cultura tradizionale (v. la perdita delle lingue tradizionali, talvolta “grazie” ai programmi di alfabetizzazione) sia della stessa esistenza fisica.
Infatti le popolazioni indigene della “cintura delle foreste” dell’India centrale (detta anche “cintura tribale”) non rischiano di perdere soltanto linguaggio e identità.
Anche la loro sopravvivenza viene periodicamente rimessa in discussione.
D’altra parte quanto avviene in India ai danni delle popolazioni tribali raramente finisce sotto la lente e l’interesse dei media internazionali. Per cui difficilmente si viene informati su massacri, deportazioni (per consentire alle multinazionali, in particolare quelle dedite all’estrazione mineraria, di appropriarsi dei territori ancestrali delle popolazioni indigene), esecuzioni extragiudiziale, stupri di donne tribali e arresti arbitrari.
Una premessa quasi “colta”.
Ancora negli anni ottanta alcuni studiosi baschi avevano sottolineato come la trasformazione del paesaggio tradizionale in Euskal Herria coincidesse con la perdita dell’euskara, la lingua più antica d’Europa.
Un fenomeno analogo venne successivamente osservato e analizzato in molte regioni dell’India. Lo storico Rozenn Milin, fondatore del progetto Sorosoro (“soffio, parola, lingua” in araki) sostenuto dalla Fondation Chirac, era rimasto molto colpito osservando “fino a che punto le carte della biodiversità linguistica si sovrappongono a quelle della biodiversità della fauna e della flora”. E come entrambe siano minacciate nella loro sopravvivenza.
In India, secondo un rapporto dell’Unesco pubblicato nel febbraio 2010, le lingue minacciate sarebbero state 196 su un totale di 1635. Tra queste 37 quelle parlate da meno di mille persone. Nella maggior parte dei casi si tratta di lingue unicamente orali che non dispongono di dizionario e grammatica. In India il multilinguismo è un elemento fondante dell’identità nazionale, ma soltanto l’hindi, l’inglese e altre 22 lingue regionali, riconosciute dalla Costituzione, vengono utilizzate per l’insegnamento. Un fattore decisivo, più ancora del calo demografico e della diffusione della televisione, sarebbe rappresentato dalla “diluizione sociale” provocata dalla costruzione di strade (come quelle della National mineral development corporation nelle foreste del Dantewada) che irrompono nei territori delle comunità indigene.
Da parte delle autorità indiane esiste poi timore (non del tutto infondato) che una politica in difesa delle lingue minoritarie possa alimentare richieste autonomiste e separatiste. Ma soprattutto, a far precipitare la situazioni delle popolazioni originarie, da anni su buona parte questi territori si è posata la cupidigia delle multinazionali desiderose di impossessarsi dei ricchi giacimenti di minerali grazie ai Memorandun d’intesa (Mou) stipulati con il governo. Tra i casi più drammatici, le colline dell’Orissa abitate dai kondh e ricche di bauxite.
E, come per la biodiversità e le lingue ancestrali, altre due mappe coincidono. Quella della “cintura tribale” si sovrappone al “corridoio rosso”. Da decenni la resistenza degli adivasi opera in relativa, talvolta sofferta, sintonia con i guerriglieri maoisti del Pci-m, conosciuti come “naxaliti” dal nome di un villaggio dove negli anni sessanta iniziò la rivolta contadina. In passato un loro leader, Mallojula Koteswara Rao (poi ucciso dalle forze di sicurezza nel novembre 2011) aveva chiesto alla scrittrice Arundhati Roy, molto attiva in difesa degli oppressi e delle minoranze, di svolgere un ruolo di mediatrice con il governo. Invece la risposta del governo, nel dicembre 2009, era stata la famigerata campagna militare denominata “Caccia Verde” con l’impiego di più di 75mila soldati. Destinata a provocare la morte sia di centinaia di naxaliti, veri o presunti, sia di altrettanti tribali (con il prevedibile corollario di esecuzioni extragiudiarie, torture, sparizioni, stupri…).
Come era accaduto nel 2022 con l’elezione a presidente dell’India (una carica più che altro formale, cerimoniale…) di Droupadi Murmu, donna di origine tribale (i Santhal), in precedenza governatrice del Jharkhand. Militante del Bharatiya Janata Party, il partito dei fondamentalisti indù.
Allargare la propria base elettorale farà sicuramente gli interessi del Bjp, ma è lecito chiedersi quali vantaggi porterà alla conservazione delle lingue e della cultura tradizionale (oltre che alla sopravvivenza fisica) degli adivasi. Più che di inclusività si potrebbe parlare di assimilazione più o meno consenziente.ALTRO CHE LE TIGRI…
Nel frattempo si mantiene la stretta repressiva, l’addomesticamento forzato delle popolazioni indocili e refrattarie al “progresso” neoliberista.
Tra le notizie ignorate dai media internazionali (in quanto scoperchiava le passate malefatte governative) va citata la liberazione avvenuta il 15 luglio 2022 nel Chattisgarh di 121 tribali (tra cui alcuni minorenni).
Arrestati nel 2017 con una serie di rastrellamenti nei villaggi della zona, nel frattempo alcuni erano deceduti dietro le sbarre.
Alla fine tutti estranei all’imboscata di Sukma (Burkapal, 24 aprile 2017) in cui avevano perso la vita 26 paramilitari della CRPF. Per cui la loro lunga, ingiusta detenzione acquistava il senso di una rappresaglia a scopo “educativo”.
A Sukma militari e paramilitari sorvegliavano in armi i lavori per la costruzione di una strada che doveva attraversare i territori tribali per conto di un gruppo industriale.
L’attacco era stato rivendicato dal DKSZC (Dand Karanya Special Zone Committee) del PCI (maoista). Nel comunicato si giustificava l’azione come una risposta di autodifesa non solo nei confronti delle politiche antipopolari del governo, ma soprattutto per le «atrocità sessuali commesse dalle forze di sicurezza contro le donne e le ragazze tribali». Ossia gli innumerevoli stupri opera soprattutto delle milizie paramilitari filogovernative. In sostanza «per la dignità e il rispetto delle donne tribali».
Si smentiva decisamente (come poi è stato riconosciuto anche dal ministero dell’Interno) che sui corpi dei soldati uccisi si fosse infierito con mutilazioni e castrazioni.
«Noi – aveva dichiarato Vikalp, portavoce della guerriglia – non manchiamo di rispetto ai corpi dei soldati uccisi. Sono i media borghesi che diffondono tali false notizie e invece spesso sono i militari che operano brutali trattamenti sui corpi dei guerriglieri maoisti». Così come – aveva continuato – «vengono riprese e diffuse nei social immagini riprovevoli delle guerrigliere uccise». Per inciso, una pratica abituale anche da parte dei soldati turchi nei confronti delle combattenti curde.
Per concludere: «I soldati non sono nostri nemici. Tanto meno nemici di classe. Tuttavia si pongono al servizio dell’apparato antipopolare e dello sfruttamento operato dal governo. Rivolgiamo a loro un appello affinché cessino di combattere schierati al fianco dei politici sfruttatori, dei grandi imprenditori, delle compagnie nazionali e internazionali, delle mafie, dei fascisti indù etc che sono, per loro stessa natura, nemici dei dalit, dei tribali, delle minoranze religiose e delle donne. Soldati, non sprecate la vostra vita per difendere tali personaggi e le loro ricchezze. Lasciate l’esercito e prendete parte alla lotta popolare”.
Non è questo l’unico esempio di una difesa della dignità delle donne tribali.
Il 15 gennaio 2020 combattenti dell’Esercito guerrigliero di liberazione popolare (PLGA) avevano attaccato un hotel ad Attamala, nel distretto di Wayanad, nel Kerala (India meridionale). La struttura, un resort di recente realizzazione, veniva utilizzata per lo sfruttamento sessuale di donne adivasi da parte dei turisti in vacanza.
Dopo aver distrutto porte e finestre e incendiato mobili, i guerriglieri avevano appeso cartelli e manifesti alle pareti sui quali si leggeva: “ L’attacco è contro la rappresentazione degli Adivasi come una merce da esporre e mettere a disposizione dei turisti. Tutti i proprietari di resort che rappresentano una minaccia all’esistenza pacifica degli Adivasi saranno sloggiati con la forza ”. Superfluo osservare che per la guerriglia maoista la difesa dell’identità indigena non ha niente a che vedere con il “pittoresco” che piace ai turisti. Piuttosto viene interpretata come una componente fondamentale della resistenza di ampi settori popolari (oltre agli Adivasi, i Dalit, i contadini poveri, le classi subalterne) nei riguardi dei mortiferi meccanismi neoliberisti che devastano e annichiliscono territori e ambiente, oltre alle popolazioni che li abitano.
Arrivando, i maoisti indiani, a mettere in discussione, pur nell’ambito della teoria marxista, gli stessi paradigmi del pensiero positivista (e produttivista) che ha contraddistinto l’Occidente e la colonizzazione. Privilegiando un’elaborazione autoctona del pensiero critico e dell’azione politica (partendo dalla “periferia” e non dal “centro”). Volendo azzardare qualche analogia, si potrebbe pensare alla riscoperta in America latina del pensiero di José Carlos Mariategui da parte dei movimenti indigenisti e in Kurdistan dell’ecologia sociale e del comunalismo libertario rivisitati da Ocalan.
Stando a quanto riferito dagli addetti ai lavori, i guerriglieri del PLGA avrebbero in dotazione un discreto armamento moderno da guerra; esiste poi una “seconda linea” costituita da forze ausiliarie con armi più rudimentali (archi e frecce principalmente), ma comunque potenzialmente letali
Per mascherare la repressione pura e semplice, il governo può anche ricorrere alle falsificazioni.
Anche in India quindi le esecuzioni extragiudiziali vengono talvolta presentate come “operazione militare contro la guerriglia”. Nello stile delle guerre a bassa intensità.
Capitava sia in Colombia che in Guatemala o nelle Filippine. I poveri corpi di contadini e indigeni inermi massacrati dalle milizie paramilitari, venivano (vengono ?) spacciati ai media come cadaveri di “combattenti”. Talvolta interi villaggi.
Arrivando anche – una variante – a esibirli come “vittime della guerriglia”.
Così in India. Solo nel dicembre 2019, dopo quasi otto anni, una commissione guidata dal giudice V.K. Agrawal aveva stabilito la verità in merito agli eventi di Sarkeguda dove, nel giugno 2012, vennero assassinati 17 adivasi, di cui sette bambini.
Un massacro ufficialmente presentato come uno scontro con la guerriglia maoista, i naxaliti. Quel mattino i paramilitari (le CRPF) avevano circondato gli abitanti del villaggio riuniti per la festa tradizionale di Beej Pondum aprendo quindi il fuoco. Successivamente si erano scatenati infierendo ulteriormente sulle persone ferite rimaste a terra.
Altre volte i conflitti, aperti o latenti, tra governo indiano centrale e minoranze si tingevano di tinte ancora più fosche, evocando scenari da “strategia della tensione”. Nel 2007, per esempio, alcuni gravi attentati avvenuti in occasione di feste nazionali e anniversari dell’India vennero inizialmente attribuiti ai gruppi islamici. Successivamente emerse la pista dei separatisti del nord-est (popolazioni bodo e naga). Già in precedenza lo scontro era stato particolarmente duro nell’Assam dove la maggior parte della popolazione è induista. Dal 1989 al 1996 la guerriglia dei bodo (in maggioranza cristiani) aveva causato la morte di circa duemila persone. Nel dicembre 1996 un attentato al Brahamaputra Express, mentre attraversava l’Assam, provocò più di trecento morti. Ancora prima delle rivendicazioni, l’atto terroristico venne attribuito ai bodo che due giorni prima avevano fatto saltare un ponte ferroviario. Per l’occasione alcuni osservatori parlarono esplicitamente di “strategia della tensione” e di possibili interventi manipolatori dei Servizi di intelligence. Non si può infatti pasolinianamente escludere (mancano le prove, ma non gli “indizi”) che in alto loco qualcuno ritenga sia “sempre meglio che si ammazzino tra di loro”. Purché il controllo del territorio e delle risorse rimanga saldamente nelle mani di chi detiene il potere.
E naturalmente anche l’oppresso di turno non mancherà di metterci del suo, lasciandosi – in buona o mala fede, consapevolmente o meno – strumentalizzare.
Per complicare ulteriormente il quadro possiamo aggiungere la questione religiosa e in particolare la diatriba sulle conversioni e sulle riconversioni. Assai numerose le agenzie (evangelici, avventisti, cattolici, animisti, induisti…) impegnate a mettere il cappello sulle sofferenze e sulle ingiustizie subite dalle popolazioni subalterne.
Senza la pretesa di saperne analizzare in maniera esaustiva il ruolo, provo ad affrontare la questione del cristianesimo in relazione a dalit (paria) e adivasi (aborigeni). Categorie oppresse che nella conversione al cristianesimo intravedono una possibile fuoriuscita dalla costrizione delle caste.
Sorvolando per ora sull’ipotetico utilizzo delle religioni per ben altri scopi (controllo sociale, alienazione etc.), riporto un paio di episodi di cui si è venuti a conoscenza.
Nel novembre 2020 l’accampamento costruito da tribali convertiti al cristianesimo (intenti a una riunione di preghiera pre-natalizia) in un villaggio di Sindhwaram (Chhattisgarh), veniva assaltato da persone “armate e ubriache”. Non meglio identificate, ma probabilmente legate al nazionalismo indù. Sul momento non si registravano uccisioni anche se molti cristiani risultavano feriti gravemente (secondo il Chhattisgarh Christian Forum). Motivo dell’aggressione, riportare i tribali convertiti al culto tradizionale, induista o animista. Episodi analoghi (una ventina) si erano già registrati nel Chhattisgarh nei mesi precedenti. Cosi come nell’Uttar Pradesh con una trentina di attacchi.
Erano stati arrestati qualche mese prima a seguito degli scontri con altri tribali di religione animista. Scontri che avevano coinvolto una trentina di villaggi nei distretti di Narayanpur e Kondagaon.
I dieci rimanevano comunque a disposizione delle autorità e rischiavano almeno dieci anni di carcere. Accusati di sommossa, detenzione di armi, danni volontari a funzionari pubblici in servizio, intimidazione e aggressione.
Con spirito ecumenico, Victor Thakur, arcivescovo di Raipur e presidente del Consiglio dei vescovi cattolici del Chhattisgarh (CBCG) aveva espresso “gratitudine all’Alta Corte di Bilaspur “ per le avvenute liberazioni. Ma denunciando nel contempo quella che a suo avviso era “una campagna pubblica contro i cristiani da parte di vari gruppi affiliati alla destra nazionalista per attuare un boicottaggio sociale ed economico dei cristiani e dei musulmani”.
Da tempo le comunità cristiane in Andrea Pradesh denunciavano la campagna di “Ghar wapsi” (“Ritorno a casa”) da parte del Btp (Bharatiya Janata Party, partito nazionalista indù al governo) e le “riconversioni di massa” di tribali e dalit.
Riconversioni che sarebbero imposte, non spontanee. Un caso emblematico quello registrato nel mese di ottobre 2019 a Meherat (Rajasthan) con oltre 500 dalit che promettevano pubblicamente di non andare più in chiesa e di tornare ai rituali della fede indù. Se da parte del Bip si accusano i missionari cristiani di “invasione”, da parte delle autorità religiose cristiane si punta il dito sul fatto che “dalit, adivasi e altre classi svantaggiate vengono minacciate, terrorizzate per scopi politici”.
In particolare nel caso dei 500 dalit “riconvertiti” (secondo alcune fonti non cattolici, ma evangelici pentecostali; così come probabilmente in origine non erano induisti, ma animisti) si rinfacciava alle autorità locali di “averli presi per fame”. L’operazione sarebbe stata condotta direttamente dal Vishwa Hindu Parishad (Vhp, una formazione paramilitare giovanile dei nazionalisti indù). In effetti, tali gruppi sociali che in passato erano emarginati, considerati “intoccabili’, attualmente vengono, anche forzatamente, spinti a partecipare a progetti e programmi governativi.
Dieci paramilitari della DRG (District Reserve Guard) e un autista avevano perso la vita nell’esplosione di un IED (Improvised Explosive Device) nel Chhattisgarh al rientro da un’operazione di contro-guerriglia.E senza accantonare quanto la questione degli adivasi sia legata a quella ambientale
L’arresto nel 2006 di Medha Patkar, in sciopero della fame contro il “piano Narmada” (Narmada Valley Development Project), era stato soltanto l’ennesimo episodio di una lotta nonviolenta già allora lunga oltre venti anni contro la distruzione di centinaia di villaggi e di intere vallate e foreste. Insieme al militante gandhiano Baba Amte, Medha Patkar (ex ricercatrice in scienze sociali donatasi interamente alla militanza) rappresentava una delle colonne portanti della protesta contro le dighe. Lo sfruttamento delle risorse idriche in India stava portando alla realizzazione di 3.200 dighe sul fiume Narmada e i suoi affluenti. Da poco, alla fine del 2005, era caduto il ventesimo anniversario dell’inizio della resistenza popolare contro i devastanti progetti. Destinati a calpestare non solo la dignità e i diritti dei nativi, ma anche, soprattutto l’ambiente naturale. Interi villaggi erano già scomparsi sotto le acque dei bacini, mentre contadini e popolazioni tribali scomparivano negli slums delle città, cessando di esistere come comunità. A fianco di Medha Paktar si era schierata la scrittrice Arundhati Roy, da sempre in prima linea contro le dighe e per la difesa dei nativi.
Forse troppo ottimisticamente, ci spiegava all’epoca Daniela (giornalista di “Cinema-Ambiente della delegazione invitata alla commemorazione): “Non si è certo potuto celebrare la vittoria (le dighe stanno aumentando), ma comunque il bilancio non è negativo perché, anche dopo due decenni, si continua a lottare””.
La regione del fiume Narmada (india Centrale) non è facilmente percorribile: “”ci si sposta solo in barca, da una parte all’altra del fiume dove sorgono i villaggi, o con lunghe marce attraverso la foresta. È comunque un territorio bellissimo, di grandiosa solitudine.
“Le manifestazioni – continuava la free lance veneziana – sono state un’ulteriore occasione per protestare contro uno sviluppo super accelerato e devastante che qui sfrutta le risorse idriche, ma i problemi sono analoghi dove il territorio viene distrutto dalle estrazioni minerarie””.
Certo la lotta delle popolazioni tribali contro le dighe in genere non fa notizia. Si preferisce parlare “della “irresistibile crescita economica dell’India, della Borsa di Bombay che va a mille, di una ricchezza complessiva enorme, dei ristoranti pieni e dei consumi di lusso”” ormai un elemento caratterizzante dell’India. Ma esiste un’altra faccia del paese asiatico: “”la realtà sempre più drammatica di un’India contadina e tribale””. Proprio nei giorni della commemorazione, Daniela aveva incontrato i superstiti di Bhopal che “”dopo una marcia di ottocento km. erano arrivati a Delhi per chiedere la rimozione della fabbrica chimica e la bonifica del terreno. Nonostante fosse una marcia pacifica la polizia li ha caricati!””.
Per aggiungere indignata: “”Questo sviluppo accelerato sta creando problemi gravissimi e si risponde con la violenza statale alle legittime proteste della popolazione””.
Circa un decennio dopo la situazione non era di molto cambiata. Il Narmada Bachao Andolan, (Movimento per salvare il fiume Narmada) festeggiava (si fa per dire) i suoi primi trent’anni con una marcia composta da migliaia di persone (contadini poveri o senza-terra, artigiani, pescatori… in larga maggioranza adivasi o dalit) che si dirigevano verso la capitale. Protestando in quanto gli sfollati non avevano ancora visto una briciola di risarcimento, tantomeno altra terra in cambio di quelle invase e sommerse dalle acque.
Alla fine anche la grande diga di Sardar Sarovar (forse la più contestata, oltre che – si dice – la seconda più grande al mondo) è stata inaugurata da Narendra Modi nel 2017.
Così come sono state completate quelle di Maheshwar, Maan, Bargi.
Mentre andava crescendo l’ampiezza delle terre sommerse, diminuivano le speranze della maggioranza degli sfollati di usufruire di qualche risarcimento. Solo alcuni hanno avuto altra terra in cambio di quella perduta. In genere però si trattava di terre non coltivabili o aride (o magari già occupate da altri diseredati).
Comunque la maggior parte degli sfollati (su un totale di circa mezzo milione di persone) non ha avuto né terra né risarcimenti in denaro (tantomeno scuole, ospedali, acqua potabile…). Rassegnati a ricongiungersi con le prime ondate di “profughi interni” nelle bidonvilles delle città.
Tornando alle tigri, aggiungerei anche un altro aspetto, per così dire “spirituale”, legato al rischio incombente di una loro prossima, possibile estinzione.
Come per altri animali altamente simbolici, mitici, “emblematici” (elefante, orso, balena, condor, rinoceronte…) la cui scomparsa potrebbe comportare effetti nefasti nella psiche, sia individuale che collettiva. Venendo meno il simbolo (di forza, saggezza, autorevolezza, longevità…) di cui li abbiamo, loro malgrado, caricati. Attribuendogli significati che ne trascendono la natura biologica. Il loro ricordo, il senso di vuoto lasciato, continuerebbe probabilmente a vivere – perseguitandoci – nel nostro inconscio. Anche al di là quindi del ruolo fondamentale, indispensabile che ricoprono negli ecosistemi.
Come spiegava James Hillman (1926 – 2011), un allievo di Jung: “Ciò che accade all’anima mundi ferisce anche i singoli individui. Conservare e difendere l’equilibrio naturale giova a ciascuno di noi più di cento sedute di psicoterapia”.
Meditiamo (ma non limitiamoci a questo).
Gianni Sartori