È già arduo fare i conti col caso dell’ospedale Pertini. Per di più ora si pongono le premesse perché sia il tribunale il luogo in cui attribuire paternità e maternità. Perché?
Il I libro dei Re racconta dell’apparizione del Signore, di notte in sogno, a Salomone, da poco diventato re: «Chiedimi ciò che io devo concederti»; e della risposta del giovane sovrano, che non domanda ricchezze, vita lunga o nemici annientati, ma anzitutto riconosce i propri limiti: «Io sono un ragazzo; non so come regolarmi». E quindi enuncia la richiesta: «Concedi al tuo servo un cuore docile perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male». Nessuno ha mai avuto «un cuore saggio e intelligente» come lui; il giudizio, descritto nel seguito del medesimo capitolo, sul riconoscimento della madre vera, fra le due che si contendono il bambino rimasto vivo, è da sempre modello di saggezza nel discernimento.
Come nell’episodio biblico, anche qui ci sono due bambini. La differenza rispetto al processo risolto dal Re giusto, è che entrambi sono vivi ed entrambi sono contesi; concepiti in provetta a seguito di fecondazione artificiale di tipo omologo, al momento dell’impianto, all’ospedale Pertini di Roma, sono finiti nell’utero di una donna diversa da colei che aveva dato il seme: e ora sono messi al mondo da una madre che non ne condivide l’identità genetica. In assenza di Salomone, nessuno riesce a stabilire in modo convincente chi sono, secondo l’ordinamento italiano, i genitori dei bimbi: l’uomo e la donna, uniti in matrimonio, che hanno fornito il seme e l’ovulo, e dei quali possiedono il patrimonio genetico? O la donna, pur essa unita in matrimonio all’uomo col quale ha condiviso l’iter della procreazione assistita, che ha ricevuto gli embrioni formati e li partorisce? Non riesce a dirlo il Comitato nazionale di bioetica, cui la questione è stata sottoposta: benché formato da alcuni fra i più esperti giuristi e competenti della materia, non ha espresso un parere risolutivo. Non riescono a dirlo studiosi dediti da decenni al settore: hanno formulato le proposte più fantasiose, dalla “spartizione” dei bambini, uno per coppia, alla condivisione – a quattro – della loro crescita ed educazione. Non riescono a dirlo non perché incapaci, ma perché è una questione complicata e senza precedenti.
È però una vicenda non voluta, a causa di uno scambio tanto tragico quanto involontario. Sorprende che invece non per errore, grazie al mix costituito da una recente sentenza della Corte costituzionale e dalle misure che ne devono dare attuazione, si stiano ponendo le basi perché casi del genere si moltiplichino. La fecondazione eterologa programma la scomposizione fra identità genetica e identità giuridica, fra “genitori” che mettono a disposizione il seme e “genitori” che accolgono l’embrione formato con quel seme, fra donatori pseudo anonimi e persone che danno il nome al bambino. Se è già arduo fare i conti con un caso intricato – e non voluto – quale è quello del Pertini, che si protrarrà per anni in contenziosi a più livelli dagli esiti prevedibilmente contrastanti, è lecito chiedersi perché si stiano costruendo le premesse per rendere l’azione giudiziaria il sistema prioritario per attribuire la paternità e la maternità.
La Consulta ha fatto derivare tutto questo dal principio, che ha sancito come costituzionalmente fondato, all’autodeterminazione in ordine al figlio: parificando quest’ultimo a un oggetto che la coppia ha diritto a conseguire. Esattamente il contrario della decisione di quel re giovane e saggio che, brandendo la spada per dividere a metà il figlio rimasto vivo, ha sollecitato l’amore della madre vera a non ritenerlo “qualcosa” da spartirsi, ma “qualcuno” da riconoscere e da rispettare.
Alfredo Mantovano
Fonte: http://www.tempi.it/
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