Senza margine di protezione

8A Gaza per sostenere un progetto finanziato dall’otto per mille, l’associazione «Aisha per la protezione delle donne e dei bambini», in un territorio devastato dalla guerra e che chiede sicurezza e pace.

Ogni ritorno a Gaza è un’emozione perché non sai quello che trovi e ogni volta poggi i piedi su un terreno diverso. Per questo ci vuole tempo per prepararsi, non solo per ottenere i due visti di entrata, rispettivamente il «coordinamento» dei servizi di sicurezza israeliani, ottenuto tramite il consolato italiano di Gerusalemme e quello di Hamas, ottenuto dall’associazione che si deve visitare. Insomma Gaza è guardata a vista da dentro e da fuori. E viene collegata, fisicamente, da un tunnel lungo un chilometro esterno (lato Israele) e un altro, sotterraneo, con l’Egitto. Ci sarebbe da compiere già una riflessione in proposito. Questa volta, poi, a febbraio era giunta una mail dal responsabile consolare che «consigliava» di non dormire a Gaza. Praticamente impossibile per chi non ha un ufficio o casa a Gerusalemme e non ha una macchina a disposizione per percorrere giornalmente la distanza da Gerusalemme a Eretz oltre ai tempi morti per i vari passaggi. In tutto per lo meno tre ore. Così abbiamo deciso di stare a Gaza, cercando sicurezza, decidendo di non percorrere le strade a piedi, ma in taxi o accompagnate. Scopo del viaggio è quello di valutare e chiudere un progetto sostenuto dall’8 per mille valdese già da due anni; un progetto piccolo ma importante perché rivolto alle donne. L’associazione è composta da donne di una nuova generazione: la project manager, Mariam, ha 30 anni, laureata in architettura, figlia di un emigrato, insegnante di storia dapprima in Egitto, poi in Iraq, da dove è rientrato con la famiglia nel 2003: meglio Gaza che la guerra.

L’associazione «Aisha per la protezione delle donne e dei bambini» usufruisce da due anni dei fondi dell’8 per mille valdese per un progetto di aiuto, sostegno legale e psicologico e di formazione per donne vittime di violenza. Aisha fa parte del coordinamento delle associazioni di donne di Gaza (Amal) ed è collegata al Centro comunitario per la salute mentale sempre di Gaza (Ccmhg). Dopo l’agosto 2014 ha visto crescere enormemente il suo lavoro, anche grazie al finanziamento che l’Ocha (Ufficio per il coordinamento degli affari umanitari dell’Onu) le ha affidato di costituire delle Unità mobili per il sostegno psichiatrico e psicologico per donne e bambini (potremmo dire per le famiglie) sofferenti da stress post-traumatico. In questi otto mesi ha visitato circa 4500 famiglie e preso in carico molte centinaia di bambini e madri in una situazione di perdita di tutto: casa, reddito, capofamiglia, figlie e fratelli. Da lì sono emersi dei casi di bambini e bambini segnalati per l’adozione a distanza.

Così, senza averlo preventivato (pensando solo di incontrare le donne che avevano beneficiato del progetto per verificarne i risultati e valutare anche l’altro importante progetto finanziato, il corso di formazione per le coppie di fidanzati per impostare una vita di coppia senza violenza) ci siamo trovate a fare un viaggio nell’enormità delle distruzioni dell’ultimo scontro Israele-Hamas. «Protective Edge» (margine di protezione) è stato chiamato da Israele, «guerra» da Hamas; di fatto distruzioni, morti e feriti per la popolazione civile, indifesa, in balia di entrambi, senza voce in capitolo, chiusa dentro uno spazio da cui non poteva uscire, colpita nelle case – rovinate su se stesse, nelle strade, perfino nelle scuole dell’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi.

A Gaza c’ero già stata a novembre 2014. In quell’occasione pensavo di vedere le distruzioni e i danni di questa ennesima «guerra». Allora c’erano delle restrizioni; questa volta ci siamo state. Una ripresa di telecamera lunga quattro minuti e mezzo, senza staccare, di distruzioni, di case abbattute, fabbriche, macchine. A novembre avevamo fotografato qua e là le distruzioni – sempre notevoli – di case, scuole, caserme e edifici pubblici. Ma una distruzione così sistematica che lega i due centri di Beit Anoun e Shejaya, a nord-est di Gaza, è al di là di ogni commento. Faceva venire in mente le foto di Dresda nel 1945. Oggi si intravvedono le tracce di una ricostruzione, parziale, degli edifici ricostruibili, ma la maggior parte sono ancora atterrati e non utilizzabili. Macerie forse «riciclabili» in altri mattoni di cemento e ferro per i trafilati. Per non parlare di quello che era dentro quelle case; ma soprattutto il pensiero che se la gente non fosse sfollata da queste aree il numero dei morti e feriti sarebbe stato ancora maggiore. Una strage. I dati Unrwa sugli sfollati parlano di trecentomila persone che hanno lasciato le loro case e undicimila famiglie non l’hanno più ritrovata.

E allora nasce lo sconcerto e la rabbia. Non è possibile che questo disastro passi sotto silenzio. Soprattutto non è possibile che questa situazione sia senza soluzione. Ogni guerra è terribile e porta con sé una scia di distruzioni, morti e feriti, orfani e vedove. Chi le ha vissute lo sa. Ogni guerra è feroce e spesso soprattutto inutile perché crea più problemi futuri di quanti ne risolva. Dalla prima guerra mondiale all’attuale conflitto in Siria, passando per i Balcani, l’Iraq ed l’Afganistan. Ma l’elenco sarebbe più lungo. Il fatto è che questa terra è senza pace. Per tutti, israeliani e palestinesi. Le poche esperienze di pace, che pure esistono, non riescono a conquistare maggioranze e le ultime elezioni in Israele ne sono un segno tangibile e hanno frenato molte speranze. Il non-governo (oramai) di Hamas è forse arrivato al capolinea. Abu Mazen non riesce a strappare nessuna concessione per Gaza da Israele. Ma in entrambi i paesi forse c’è una nuova generazione che non vuole andare alla guerra, da una parte, e dall’altra non vuole cadere nel buco nero di Hamas. Purtroppo troppi interessi, troppe politiche si incrociano in quest’area del mondo e continuano ad allontanare la pace che non sembra raggiungibile.

Che fare? Come superare il muro di silenzio sulle concrete conseguenze di questo conflitto? Mi viene in mente la frase conclusiva dell’appello delle donne di Gaza del 25 novembre scorso: «Non tacere, alza la tua voce e chiedi protezione, libertà e dignità per le donne palestinesi». E aggiungerei, per tutti gli abitanti di questa travagliata terra. È nostro dovere farlo.

Gianna Urizio

da: http://riforma.it/

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