Sperperare da dissoluto

Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto. Luca 15:13

Come il giovane della parabola lucana, l’umanità si sta allontanando progressivamente dalla sua vocazione di figlio, nella casa del Padre, ossia di creatura vicina al suo Creatore. Alla ricerca di soddisfare il suo desiderio di realizzazione e raggiungimento del proprio successo o godimento l’essere umano in generale si sta ergendo a idolo proprio, davanti al quale tutto deve passare in secondo piano. Ogni giorno compie passi nella direzione opposta alla legge morale incisa nel suo cuore. Quando un vento impetuoso soffia sulla nostra vita, quando la tempesta ci avvolge e stravolge, il desiderio e l’aspirazione comune è fuggire lontano. Ma quando vai lontano, non è detto che sei al sicuro. Il posto più lontano non è garantito che sia quello giusto per te. Di certo lontano dagli affetti e da chi esercitava un minimo di autorità, subentra la convinzione di poter fare quello che si vuole. I freni inibitori si abbassano progressivamente e la vita dissoluta va via via prendendo il largo.

Due termini sono in relazione tra loro nel succinto e triste resoconto di Luca: “sperperò” e “dissoluto”. Quando cominci a sperperare cadi nella dissolutezza. Quando ti dai alla vita dissoluta perdi il valore di ciò che hai e lo sperperi. Da qualunque lato la vuoi guardare, il risultato non cambia. Come il gatto e la volpe affiancarono Pinocchio dopo la vendita dell’abecedario, probabile che nel paese lontano amicizie interessate, fuori dal controllo del padre, abbiano aiutato il giovane sprovveduto a dilapidare la dote. Nel termine dissoluto (o dissolutamente) vi è tutta la triste condizione del ragazzo. Il termine greco viene da “asotia” ossia senza “sozo”, quindi significa che “non può essere salvato”. La sua è una condizione che si definisce “senza speranza”. Qui trova tutto il suo significato l’aggettivo “prodigo”, che sta per “spendaccione”. Colui che con maniche larghe aveva sperperato, dovrà presto conoscere un “prodigo” in amore e compassione. Il figlio “spende” senza misura. Il padre “dona” senza misura. Quel che per gli altri è irrimediabilmente compromesso, Lui riesce a salvare.

Lontano da tutti e da Dio, occorre improvvisamente fare i conti con le contingenze esterne e imprevedibili: “Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno”. Cosa fare allora? Quando sopraggiunge la disperazione si è disposti a fare tutto, anche quel che non si è mai fatto e che mai si sarebbe ipotizzato di fare. Il nostro giovane è disposto a pasturare i maiali, animali immondi per gli ebrei. E non solo, desidera mangiare le carrube, dal sapore dolciastro e foraggio per il bestiame. Il lapidario commento “ma nessuno gliene dava” sembra una sentenza divina: è nell’indigenza perché Dio lo sta punendo per le sue scelte. In realtà non è altro una situazione per descrivere che aveva toccato il fondo, infatti, un detto rabbinico afferma: “Quando gli israeliti sono ridotti a mangiare carrube, allora si pentono”. Ed è quel che accade anche a lui. Quando il buio dell’abisso sembra prendere il sopravvento, ecco uno squarcio aprirsi. I morsi della fame, e della fame spirituale in particolare, favoriscono la ricerca di Dio.

Caro lettore, se questa è la tua condizione, non esitare a rientrare in te e a tornare a casa.

(Puoi approfondire leggendo il mio “Un padre e due figli”, BE edizioni).

Elpidio Pezzella | Elpidiopezzella.org

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