Jilib, Somalia – La mattina del terzo giorno la donna con il bambino al collo vede in lontananza le tende bianche, a cupola, con la scritta UNHCR in azzurro. Il deserto alle spalle le ha tolto ogni forza ma le ha lasciato davanti agli occhi la speranza che al campo di Dagahaley ci sia qualcuno che possa aiutarli. Amina si accovaccia nella sabbia a contemplare la meta per qualche minuto richiamando a raccolta le ultime energie mentre il piccolo succhia tranquillo l’ultima foglia di khat per non sentire la fame. Mancano pochi chilometri alla salvezza, se solo non incontreranno una di quelle bande che fanno la ronda intorno ai cinque campi di Dadaab in attesa di predare sesso e monete ai disperati in arrivo dal confine.
Verso mezzogiorno un pick-up della polizia kenyota, lanciato all’inseguimento di un poveraccio sorpreso a tagliare arbusti, li soffoca di polvere. Amina si ripara come può ma il bambino comincia a tossire e a piangere e lei deve fermarsi ancora una volta per cercare di calmarlo. Quella sosta non voluta le spezza le gambe e la volontà, si lascia allora scivolare a terra, esausta e sfinita, con Joseph che le strilla al fianco. Per qualche istante sente il sole cocente bruciarle la faccia poi tutto intorno a lei sparisce nel silenzio.
Si risveglia per uno schiaffo di acqua gelata sul viso. Balza a sedere di scatto e incontra gli occhi grandi e muti di una bambina che porta due taniche gialle appena riempite al pozzo. La ragazzina dice qualcosa in un dialetto che lei non capisce e le porge una delle due jerricans. Amina ringrazia con un gesto del capo e delle mani e beve un piccolo sorso; uno più lungo lo concede al figlio, poi restituisce la tanica. La bambina, rassicurata, si allontana. La donna allora si scuote, si ricarica il bambino al collo e riprende il cammino.
Dopo un’ora raggiunge il compound in muratura della Ong che già una volta le aveva dato una speranza per la vita. Entra, si siede sulla panca di legno e chiede di Lucia. La volontaria compare dopo qualche minuto e la riconosce subito, anche sotto la polvere, la fame e la fatica: «Oh mio Dio, Amina, cosa ti è successo? Come mai sei tornata qui? Hassan dov’è?».
La fuggitiva non riesce a pronunciare parola, scoppia a piangere e si abbraccia a Lucia che non ama indugiare nell’affetto e preferisce rincuorala con la propria premura: «Vieni subito con me, devi bere, mangiare, lavarti e anche Joseph; Santo Dio come sei conciato piccolino! Venite, venite» dice facendo strada verso il proprio ufficio.
Lucia provvede alle prime necessità con il pranzo confezionato che non ha ancora consumato, due bottiglie d’acqua e un pacchetto di crackers, poi passa alle cure organizzative: «Ci penso io alla registrazione altrimenti ci vorranno giorni, forse settimane, così da domani mattina avrai un posto e il diritto alle razioni».
Amina, senza parlare, lascia fare alla cooperante che, posato il telefono, le domanda: «Non mi hai ancora detto di Hassan, è rimasto in Somalia?».
Come risposta la profuga cerca in una piega nascosta della veste una fotografia sporca e spiegazzata e la porge a Lucia che, osservatala, si lascia sfuggire un grido di orrore, quindi Amina inizia il suo racconto: «All’inizio, quando siamo tornati a Jilib, le cose non andavano male. Hassan e io siamo riusciti a iniziare quel piccolo commercio di verdure di cui tante volte abbiamo parlato con te. Ce la cavavamo. Poi qualcuno dei nostri vicini ha iniziato a sospettare che ci fossimo convertiti al cristianesimo durante gli anni che abbiamo passato qui in Kenya. Noi non facevamo nulla per dimostrarlo ma le voci circolavano lo stesso e un gruppo di shabaab ha voluto vederci chiaro. Sono arrivati a casa nostra, hanno preso Hassan e gli hanno chiesto se fosse cristiano; lui ha risposto di sì e allora lo hanno portato in mezzo alla piazza, hanno fatto uscire tutti dalle case perché vedessero che in Somalia non c’è posto per i cristiani e poi lo hanno fucilato, davanti a me, davanti a tutti. Tra i miliziani ce n’era uno che andava sempre in giro con la polaroid al collo e scattava foto a tutto quello che capitava. I suoi compagni lo deridevano e lo chiamavano “niortaims”. È stato lui a fare questa fotografia. Me l’ha buttata addosso per disprezzo».
Hassan Hurshe, somalo, di 28 anni, sposato e padre di un bambino di 4 anni, è stato fucilato in pubblico a Jilib (distretto del Medio Juba, Somalia) dagli estremisti di Al Shabaab per essersi convertito al cristianesimo. Hassan era emigrato in Kenya nel 2006 dove aveva incontrato, Cristo come suo personale salvatore; confidando in un clima sociale migliorato era tornato in patria per iniziare un piccolo commercio.
In questa foto, un dettaglio del corpo di Hassan Hurshe dopo la fucilazione. Immagine pubblicata dalla testata Morning Star News.
Da Tempi.it