Sudan tollerante? Una falsa pretesa

A fine anno, come di consueto, in conformità con l’International Religious Freedom Act approvato nel 1998, il Segretario di Stato Usa Rex Tillerson ha reso noti i nomi dei paesi ai quali gli Stati Uniti guardano con particolare preoccupazione perché i loro governi infliggono oppure tollerano gravissime, sistematiche, persistenti violazioni della libertà di religione. “In troppi luoghi del pianeta – ha detto Tillerson presentando l’elenco – delle persone continuano a essere perseguitate, ingiustamente processate e incarcerate per aver esercitato il loro diritto alla libertà di religione e di credo. Dei governi ostacolano la libertà di ogni uomo di adottare, cambiare o abbandonare una religione e di praticare liberamente quella in cui crede”.

L’elenco 2017 comprende Myanmar, Cina, Eritrea, Iran, Corea del Nord, Sudan, Arabia Saudita, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan. Inoltre il governo Usa ha posto sotto osservazione il Pakistan, in una lista speciale.

La scelta degli Usa non sorprende. Tutti i paesi indicati figuravano, con altri sei, nel rapporto annuale della Commissione per la libertà religiosa del Dipartimento di Stato Usa pubblicato lo scorso luglio, una dettagliata relazione sulle discriminazioni e le persecuzioni perpetrate nel mondo. Inoltre compaiono da anni nella lista mondiale dei 50 stati in cui i cristiani sono più perseguitati, redatta dall’ong Opendoors. Cinque – Corea del Nord, Pakistan, Sudan, Iran ed Eritrea –  sono in cima alla lista pubblicata nel 2017, figurano cioè tra i dieci stati in cui la persecuzione dei cristiani è tale da essere definita “estrema”.

Alcuni governi non negano di violare la libertà di religione o di consentire che venga violata. Al contrario, rivendicano il diritto di farlo. Altri ignorano i rimproveri, piuttosto denunciano come ingerenze illecite gli appelli e le denunce. I rapporti sono “di parte” – protestano altri – hanno lo scopo di screditare, ignorando i fatti. Che un governo neghi di limitare la libertà di religione implica il riconoscimento che perseguitare una religione è ingiusto. Sembrerebbe un passo avanti, un punto di partenza, uno spiraglio per il dialogo. Ma non è così se negare ha il solo scopo di impedire provvedimenti che possono comportare spiacevoli conseguenze: sanzioni, embargo, blocco dei conti e dei beni di personalità politiche, fastidiose indagini della Corte penale internazionale che, se portano a un mandato di arresto internazionale, creano incidenti diplomatici e limitazioni ai viaggi. In altre parole, si nega e protesta per continuare indisturbati.

È il caso del Sudan che il 7 gennaio ha espresso “profondo rammarico” per la decisione Usa di includerlo nell’elenco dei paesi che violano gravemente la libertà di religione. Il ministro degli esteri sudanese Gharib Allah Khidir ha protestato affermando che la decisione degli Usa è priva di senso e contrasta con gli elogi rivolti al Sudan da leader religiosi e organismi internazionali. Ha citato in particolare l’arcivescovo di Canterbury, il Commissario per la libertà religiosa dell’Unione Europea e lo stesso ambasciatore Usa per la libertà religiosa internazionale che si sarebbero congratulati con il governo sudanese per i livelli di sicurezza, libertà e rispetto dei diritti dei cristiani ancora residenti in Sudan: poco meno di due milioni, dopo che nel 2011 il Sud cristiano del paese ha ottenuto l’indipendenza.

Il Sudan – dice ancora il ministro – accorda a cittadini, stranieri e rifugiati ampia libertà di religione grazie all’esistenza di 844 chiese che gestiscono 319 istituti scolastici e 173 centri culturali e sanitari. Il fatto stesso di aver ricevuto delle delegazioni religiose – ha aggiunto il ministro – rivela la fiducia del Sudan che deriva da una lunga storia di coesistenza e tolleranza tra religioni e razze diverse.

Questa del ministro Khidir è una affermazione stupefacente. Nella regione occidentale del Darfur la popolazione di origine africana è stata martoriata per anni dal regime dominato da clan arabi. La guerra è terminata nel 2003 con un bilancio di oltre 300.000 morti e più di due milioni di profughi. Per questo conflitto crudele il presidente Omar al Bashir è stato incriminato dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio. Contro di lui è stato emesso un mandato internazionale di cattura. Anche le popolazioni africane cristiane e animiste del sud ora indipendenti sono state decimate da Khartum con una persecuzione durata decenni. I morti di fame, abusi, scontri armati, malattie, disperazione sono stati quasi due milioni. La guerra poi ancora continua, cruenta, nelle regioni meridionali, abitate da molti cristiani, sui Monti Nuba e nello stato del Nilo Blu che con la secessione sono rimasti sudanesi.

Il Sudan è entrato nella lista dei paesi in cui i cristiani sono più perseguitati nel 1993 e da allora ha occupato quasi sempre le prime posizioni. La persecuzione assume molte forme. Una consiste nella demolizione delle chiese con il pretesto di piani regolatori violati o atti di proprietà mancanti. Altre proprietà di istituti religiosi vengono confiscate arbitrariamente. Dal 2013 il governo non concede autorizzazioni a costruire nuove chiese sostenendo che ormai la maggior parte dei cristiani si sono trasferiti nel nuovo stato nato con la secessione, il Sudan del Sud. L’ultima chiesa abbattuta, nel settembre del 2017, era stata costruita nel 1983, in un distretto orientale della capitale Karthum. Aveva tutti i documenti in regola, ma questo non è valso a salvarla dalla demolizione.

Anna Bono | Lanuovabq.it

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