Un anno in meno di scuola, tra tradizione e Novecento? Togliamo le medie

La parola d’ordine oggi? «Modernità»

Vivo da ben quarant’anni nel mondo della scuola, in maniera ininterrotta, come studente, educatore, insegnante. In questi otto lustri ho visto modificare le proposte pedagogiche, le terminologie riguardo ai programmi e alle metodologie di lavoro. Sembra sempre che tutto debba ogni volta cambiare perché fin a quel momento si è sbagliato tutto e allora si deve riformare. Parola d’ordine? «Modernità» che è sinonimo di «stare al passo con i tempi».

Dal 2010 sono state decurtate le ore di Storia, di Geografia, di Latino nei Licei in modo da favorire materie più moderne. Meno materie umanistiche, più Informatica e Inglese. Nel 2013 sembrava che si potesse aggiornare la scuola mandando in cantina i libri cartacei per avvalersi del tablet, del computer, del digitale. Da anni nella scuola primaria si sono privilegiate materie ed educazioni considerate più moderne a discapito dell’Italiano (grammatica, scrittura, etc.) e della Matematica che sono sempre meno conosciuti dagli alunni in nome dell’Informatica, dell’Inglese, etc. Con un paradosso, però, facilmente verificabile. Prendete gli studenti alla fine del primo anno della Scuola Superiore di primo grado e provate a verificare se conoscano meglio o peggio l’Inglese rispetto a chi studiava la materia per un solo anno trenta o quarant’anni fa. La risposta sarà sconcertante. Come è possibile che i ragazzi di oggi, che studiano l’Inglese già dalla scuola dell’infanzia, dopo otto anni di incontro con una lingua straniera, abbiano una conoscenza del tutto insoddisfacente? È sufficiente inserire l’Inglese nello studio, riformare i programmi per raggiungere una cultura e una competenza maggiori? Evidentemente no. Per queste ragioni da anni la scuola ha inserito la nuova parola d’ordine «competenze», che sembra debba sostituire la cultura. Non proseguo in questo approfondimento.

Un anno in meno di scuola? Solo togliendo le medie

Due questioni, in particolare, sono emerse in questi giorni nel dibattito di intellettuali ed esperti a partire dall’articolo del noto critico Asor Rosa intitolato “La scuola nella mani dei barbari pubblicato su Repubblica.

La prima è l’opportunità di ridurre di un anno la scuola superiore. Credo che sia possibile solo riformando l’intero impianto scolastico. Si dovrebbe eliminare la scuola secondaria di primo grado, aumentare di un anno la scuola primaria e di un anno quella secondaria di secondo grado. Il percorso scolastico sarebbe, così, di dodici anni, ma potrebbe avere dei benefici. Gli studenti di undici anni, che di solito devono essere accolti e valutati all’inizio del percorso della secondaria di primo grado, potrebbero sentirsi meno spaesati se accompagnati ancora dalla maestra della primaria. Quest’ultimo anno potrebbe avere anche una valenza orientativa in modo che gli studenti possano scegliere la scuola superiore più adatta alle proprie capacità, competenze, desideri e passioni. Si risolverebbe il problema di una scuola secondaria di primo grado che troppo spesso è parcheggio di tanti studenti che non vogliono studiare. Si potrebbe pensare anche alla distinzione nei sei anni di superiori di un biennio di partenza comune per diversi indirizzi di scuola e quattro anni successivi di specializzazione. Credo che i vantaggi in una riforma di questo tipo sarebbero molteplici.

Di natura psicologica per gli studenti, che in un’età critica (dagli undici ai quattordici anni) si trovano senza una guida, un maestro, un riferimento già trovato, in una terra di nessuno, in una situazione di passaggio che di per sé ha per loro solo il significato di transitorietà: sensazione opposta a quella della primaria in cui il bambino vorrebbe rimanere per sempre o a quella della secondaria di secondo grado che è caratterizzante un percorso o una scelta.

I vantaggi potrebbero, però, essere anche di natura culturale, perché credo che un percorso di sei anni più sei permetterebbe di ottimizzare i tempi dello studio, di favorire gli approfondimenti senza ripetizioni talvolta inutili e sterili, di accertarsi che gli apprendimenti e le competenze siano acquisiti. Chiaramente questa proposta di riforma sarebbe tutta da dettagliare e da valutare nelle ipotesi attuative.

Viceversa, non credo che la riduzione di un anno delle secondarie di secondo grado possa portare benefici, se manteniamo l’impianto scolastico attuale. La riforma non può riguardare solo la fine di un percorso senza toccare nel profondo l’intero impianto scolastico fin dalla scuola primaria.

L’importanza dello studio del Novecento

Il dibattito di questi giorni ha portato, poi, alla ribalta la questione dello studio del Novecento che dovrebbe essere al centro del programma del quinto anno, soprattutto nelle materie umanistiche e, in particolare, in Storia e in Letteratura italiana. L’indicazione risale già a tanti anni fa.

Tutti gli insegnanti sanno bene che oggi esistono delle Indicazioni Nazionali per ogni disciplina, ovvero delle linee guida che tratteggiano un percorso non dettagliato, ma con la precisazione di autori, argomenti, movimenti che dovrebbero essere affrontati e di altre ipotesi di lavoro tra cui scegliere in modo tale che si delinei un percorso in cui sono salvaguardate cultura e libertà di insegnamento. Potremmo anche dire che le indicazioni nazionali sottolineano ciò che non può mancare nel bagaglio culturale e nelle competenze dello studente, lasciando largo spazio di autonomia all’insegnante.

Esemplifichiamo la questione con riferimento allo studio della Letteratura italiana nell’ultimo anno delle superiori. Nel terzo e nel quarto anno si dovrebbe affrontare lo studio dal Dolce Stilnovo al Romanticismo. La parte di letteratura precedente agli stilnovisti si dovrebbe studiare negli ultimi mesi del secondo anno. Il quinto anno l’insegnante partirà da Leopardi per le «risonanze novecentesche della sua opera», non potrà tralasciare Baudelaire (l’altro gigante della poesia moderna) e passando da Verga, Pascoli e D’Annunzio approderà a Svevo, Pirandello, «momenti non eludibili della costituzione della “tradizione del Novecento”».

Fino a qui le indicazioni nazionali ripercorrono, con grande sintesi, quanto gli insegnanti già affrontavano fino a cinquant’anni fa. La parte finale è quella più innovativa: «Dentro il secolo XX e fino alle soglie dell’attuale, il percorso della poesia, che esordirà con le esperienze decisive di Ungaretti, Saba, Montale, contemplerà un’adeguata conoscenza di testi scelti tra quelli di autori della lirica coeva e successiva (ad es. Rebora, Campana, Luzi, Sereni, Caproni, Zanzotto, ecc.). Il percorso della narrativa, dalla stagione neorealistica ad oggi, comprenderà letture da autori significativi come Gadda, Fenoglio, Calvino, Levi e potrà essere integrato da altri autori (ad es. Pavese, Pasolini, Morante, Meneghello ecc.). Raccomandabile infine la lettura di pagine della migliore prosa saggistica, giornalistica e memorialistica».

Ma chi lo studia davvero bene?

Chiederei al Ministero di condurre una statistica per verificare dove si arrivi in Letteratura italiana alla fine del quinto anno. Credo che i risultati sarebbero scontati. Gran parte degli insegnanti svolgono ancora programmi simili o poco differenti rispetto a quelli di decenni or sono. Davvero si studia il Novecento a scuola secondo le Indicazioni Nazionali? In che modo è possibile partire da Leopardi e arrivare alle esperienze narrative e poetiche coeve?

In questi venti anni di insegnamento nelle superiori ho sempre accompagnato almeno una classe agli Esami di Stato. La mia esperienza mi ha portato a verificare che i tempi per affrontare quella prima parte delle indicazioni nazionali che da Leopardi conduce a Pirandello coinvolge l’attività didattica fino a marzo. Con tutto l’impegno che si può mettere non sono mai riuscito ad affrontare Pirandello prima di quella data. Nel confronto con amici e colleghi mi rendo conto che mi trovo ad essere tra gli insegnanti che si trovano più avanti rispetto alle indicazioni. Ammettiamolo. Sarebbe anche possibile trovarsi più avanti, ma come verrebbero affrontati gli autori? Quanto occorre per introdurre gli studenti ad un genio come Leopardi? Oppure a Verga, troppo spesso non apprezzato come meriterebbe? Oppure a Pascoli? O ancora a un gigante del Novecento come Pirandello, non solo grande drammaturgo, novelliere e romanziere, ma anche fine filosofo e pensatore? Chi bazzica nella scuola sa che gli ultimi due mesi (aprile e maggio) offrono solo parti intermittenti di attività didattica dedicata alle spiegazioni, tra ponti, vacanze, gite, simulazioni di Esami di Stato e quant’altro. Bene in queste ore rimanenti, perché davvero si tratta di poche decine di ore, qualcuno può presumere di poter seguire davvero le linee guida indicate? Di  solito, senza perdere neanche un istante, mi dedico allo studio della grande triade del Novecento (Ungaretti, Saba, Montale), dedico spazio a Calvino, Quasimodo, Gadda, mi soffermo su qualche testo di Pasolini, Luzi, Pavese, a testi della narrativa neorealista, scelgo altri autori (Eugenio Corti o altri in relazione ai percorsi affrontati in classe quell’anno). Questo tipo di percorso, a detta di molti miei colleghi, è già ampio, tocca già tanti autori. Non è, però, quello che dovrebbe portare ad una conoscenza ampia della narrativa e della poesia contemporanee.

Tradizione e Novecento? Solo così è possibile

E allora come è possibile aprire meglio al Novecento e al ventunesimo secolo? La scelta del Novecento impone l’esclusione o il taglio dei classici della tradizione? Qui sta l’errore, a mio avviso, delle contrapposizioni generatesi in questi giorni tra sostenitori del presente o del passato.

Come tutti ben comprendono non si tratta di tagliare, ridurre e semplificare il passato. Senza memoria letteraria non si comprende nulla. Come si può pensare di dedicare poche settimane a quel Petrarca che verrà richiamato con allusioni in tanti testi successivi? Per secoli la scrittura di Petrarca e di Boccaccio sarà modello da imitare rispettivamente nella poesia e nella prosa. Senza Petrarca non si può comprendere l’Ariosto, ma neppure il lessico di Leopardi. Del resto, come si possono comprendere bene l’Orlando furioso e la Gerusalemme liberata senza aver studiato adeguatamente la Commedia? L’elenco potrebbe continuare. L’opera d’arte scaturisce da una creazione, da un’innovazione all’interno di una tradizione, di una memoria. L’uomo del Seicento era cosciente di essere «un nano sulle spalle dei giganti». Nel contempo, non credo che uno studente di oggi possa non avere le coordinate giuste per introdursi alla cultura e alla letteratura contemporanea.

E allora come si può fare per salvaguardare i padri (coloro che hanno generato nella tradizione letteraria) e introdurre ai figli?

Credo che una soluzione ci sia. La storia letteraria deve essere distribuita su un arco temporale più ampio, su quattro anni, a partire dall’inizio della seconda. Il cambiamento introdotto qualche anno fa ha fatto sì che gli insegnanti del biennio introducessero le origini della Letteratura italiana sul finire del secondo anno. Non basta. Se vogliamo che ci sia spazio per spalancare in maniera profonda alla cultura e alla letteratura del Novecento è necessario avere un anno intero da dedicare esclusivamente alla contemporaneità. Del resto, che senso ha lo studio letterario come è impostato oggi al biennio? Che senso ha introdurre tanti poeti e narratori dell’Ottocento e del Novecento con grande sintesi e offrendo spesso giudizi frettolosi e veloci, autori che verranno poi studiati ancora in quinta? Non sarebbe meglio offrire gli strumenti per lo studio della poesia e della narrativa solo al primo anno lasciando poi al secondo anno il compito di affrontare I promessi sposi e lo studio della letteratura dalle origini fino a Petrarca (affronterei Boccaccio in terza). Il biennio di Letteratura italiana va ripensato.

L’autoformazione degli insegnanti

Naturalmente, non basta rivedere le Indicazioni Nazionali. È necessario piuttosto un lavoro serio di autoformazione degli insegnanti. Quanti tra loro hanno studiato Letteratura contemporanea all’università? Un numero ridottissimo, dal momento che sostiene quell’esame di solito chi si laurea nell’orientamento filologico-letterario. Quanti hanno provveduto a studiare tutti quegli autori del Novecento che non si studiavano nelle programmazioni di venti, trenta o quarant’anni fa? Per affrontare bene il Novecento bisogna attraversarlo e lo deve fare in primis colui che deve guidare l’attraversata (ovvero l’insegnante).

L’importanza della storia contemporanea

Analoga questione riguarda lo studio della Storia. In questo caso, già da diversi anni, si è ridotto lo studio del Medioevo e delle epoche classiche nel biennio proprio per favorire l’approfondimento del Novecento con il risultato, però, che gli insegnanti arrivano in quarta e in quinta, spesso, ancora in ritardo rispetto alle Indicazioni Nazionali e il Secondo Novecento non viene affrontato, se non in piccola parte. In molti casi oggi a scuola si insegna la storia ancora fino al Secondo Dopoguerra, con riferimenti, al massimo, alla Guerra fredda, proprio come accadeva, trenta e quarant’anni fa. Quali sono le vere ragioni? Davvero è solo una questione di tempo? Quanti docenti sono davvero preparati e attrezzati allo studio degli ultimi cinquant’anni di storia? Chi l’ha davvero affrontata all’Università? Chi si è aggiornato? È possibile che la maggior parte degli studenti di oggi non conosca nulla della guerra del Vietnam, degli anni di piombo, di Aldo Moro? E con questi fatti siamo arrivati solo alla fine degli anni Settanta. Mancano altri quarant’anni all’appello.

Giovanni Fighera | Tempi.it

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