UN RICORDO GRATO PER LA “SIGNORA DEL MULINO” DI CERVARESE SANTA CROCE

Da tempo vado annaspando in quella fase della vita in cui molte delle persone incontrate, mi riferisco soprattutto a quelle significative, sono “andate oltre”. Se in passato prevaleva un senso di vuoto (anche per la scomparsa repentina, spesso tragica, di amici, compagni e compagni di cordata…), ormai questo viene sovrastato, ammorbidito dalla rassegnazione. Al punto che non scrivo neanche più necrologi in memoria.

Ma talvolta la notizia della morte di una persona, tra l’altro conosciuta solo superficialmente, apre inspiegabilmente il flusso di ricordi, vari ed eterogenei.

Come per la recente dipartita a 84 anni di Luigina Nicchio che avevo incontrato molti anni fa nel suo mulino restaurato di Cervarese Santa Croce (per chi proviene da Montegaldella – provincia di Vicenza – lungo l’argine del Bacchiglione, il primo paese della provincia di Padova). Località non estranea alla memoria familiare di chi scrive in quanto qui, sulla storica passerella, transitava mia nonna bambina (la nona Pina, al secolo Evoli Marta) prima della guerra (la Prima G. M.) provenendo da Veggiano per andare a immergersi e lavorare nelle lontane risaie di Mossano, alle falde dei Colli Berici (nella zona ora conosciuta come Palù).

E sorvolo sul fatto che proprio alla prima Guerra Mondiale (un massacro indecente) qui è stata dedicata una vistosa cartellonnistica. Con in bella vista alcune fotografie dell’epoca dove eleganti signore provviste di ombrellino parasole  assistono alle esercitazioni dei soldati in procinto di partire per il fronte. Emblematiche. Quella che per le classi subalterne si avviava a diventare l’inutile strage (come la definì Benedetto XV, ma “ignobile” sarebbe più consono), per quelle dominanti era spettacolo.

Tornando alla signora Luigina, in molti l’hanno ricordata soprattutto per il meritevole recupero dei ruderi di un antico mulino (si ritiene millenario). Opera realizzata ancora negli anni settanta con il marito Giorgio Macrelli, imprenditore milanese. Originaria di un paesotto dell’estremo Basso Vicentino, si era trasferita giovanissima a Milano dove conobbe il futuro marito. Ma i due coniugi non si erano limitati al restauro. Intorno al mulino, sulle sponde del fiume e nei campi circostanti avevano realizzato un piccolo “paradiso” (come legittimamente lo definiva Luigina) dove pascolavano, correvano, saltavano capre e caprette, un pony e un paio di asinelli.

Ed è qui che la storia dei due meritevoli personaggi si intreccia con le mie aspirazioni. Nel paese  natio di Luigina era in vigore una pratica discutibile, pare importata da un sacerdote originario del Veronese. Durante la sagra dall’alto del campanile veniva calato giù con le corde un asinello tra le grida e gli sghignazzi della plebe (il termine “popolo” in questo caso sarebbe fuori luogo). Ovviamente la creatura, terrorizzata ragliava (gridava) e spesso per la paura defecava vistosamente. Suscitando l’ilarità beota del pubblico sottostante. Nel frattempo si procedeva alla lotteria e chi vinceva si portava a casa l’animale desinato a finire in tavola come musso (considerato una specialità locale).

Un rituale che – presumibilmente – rimandava all’epoca dell’Inquisizione quando in alcune località a venir scaraventato direttamente dal campanile era qualche eretico. In seguito simbolicamente sostituito dall’asino (analogamente a quanto avveniva fino a pochi anni fa in qualche località iberica dove invece l’asinello veniva picchiato con spranghe e bastoni, sempre per rievocare analoghe esecuzioni di presunti eretici, streghe o dissidenti).
Negli anni la pratica ignobile era stata “umanizzata” (almeno formalmente) e l’asino veniva calato con le corde (per essere poi comunque macellato).

Forse inorriditi, sicuramente impietositi, Luigina e Giorgio una volta chiesero di poterlo acquistare prima della squallida esibizione.

Gli indigeni non sentivano ragioni. Forse per orgoglio campanilistico (e qui il termine ci sta) nei confronti dei “milanesi” o in nome di una malintesa salvaguardia delle “tradizioni”. Ma i due avevano tanto insistito che alla fine la ebbero vinta. E almeno per una volta ci fu il lieto fine. Qui, al mulino di Cervarese, l’asinello trascorse quasi 30 anni. In pace e serenità come si addice a tutti gli asini del mondo.

La storia mi era stata riferita a grandi linee da un’amica (animalista e vegetariana, ca va sans dire) e in seguito avevo avuto modo di approfondirla direttamente con la signora Luigina. Ogni volta che passavo, generalmente in bici, verificavo che la creatura fosse ancora in buona salute e – quando mi capitava di incontrarla – ne parlavo con la “Signora del mulino”.
Tra l’altro, per restare sull’attualità (vedi alluvioni), quando una dozzina di anni fa l’intera zona – da Montegalda a Cervarese e oltre – venne sommersa  in maniera inusuale, molti animali (soprattutto i cavalli di qualche maneggio) perirono ancora rinchiusi nelle stalle (i proprietari si erano preoccupati di “portare in salvo” prima le auto) mentre Luigina e il marito, innanzitutto si preoccuparono degli animali e nessuno perì nonostante il vasto allagamento).

L’ultima volta, pochi anni fa, mi aveva informato, con rammarico, che aveva raggiunto le Grandi Praterie. Ma ci consolava entrambi sapere che comunque era vissuto a lungo e dignitosamente, sfuggendo al brutale destino a cui era stato destinato.

Gianni Sartori

Ti è piaciuto l'articolo? Sostienici con un "Mi Piace" qui sotto nella nostra pagina Facebook