Una riflessione nella solitudine

Cristo è presente dove noi non arriviamo, anche nel deserto.

Le chiese protestanti nel nostro paese, dovendosi adeguare alle norme emanate dal Governo, come abbiamo raccontato in queste settimane, hanno rapidamente messo in opera una serie di iniziative online per svolgere, per quanto possibile, culti, studi biblici e catechetica a distanza. Ma la circostanza della pandemia ha anche suscitato dibattito, riflessioni e approfondimenti su che cosa significhi, oggi e anche domani, essere chiesa, e sui modi di “vivere la chiesa”. Riportiamo qui di seguito un primo intervento di Winfrid Pfannkuche, pastore della chiesa valdese di Bergamo.

Quando l’aereo sta per decollare, siamo all’improvviso confrontati con la nostra precarietà umana. Molti, in questo momento, chiudono gli occhi e dicono forse anche una preghiera (magari solo: «andrà tutto bene!»). Nell’ascolto delle misure di sicurezza entriamo per un istante in uno scenario di emergenza. Una di queste misure mi fa rabbrividire: quando cadono le mascherine d’ossigeno, ai genitori viene intimato di mettere la mascherina a sé stessi, prima di pensare ai loro figli, contro ogni istinto materno o paterno. Il senso di questo egocentrismo è chiaro: se tu non respiri non sarai nelle condizioni di aiutare gli altri. Certo, è una misura che mette fuori uso non solo i nostri istinti, ma anche tutto quello che avevamo finora imparato di buono. Sarebbe pericoloso insegnare l’egocentrismo al posto dell’altruismo. Nota bene: questa regola vale esclusivamente per il momento d’emergenza.

Tuttavia, anche nella preghiera (dal latino: precari, precarietà) emerge quest’elemento egocentrico: «Non mio padre, non mia madre, ma son io, Signor, che ho bisogno di pregar…» abbiamo imparato a cantare fin da piccoli. La preghiera per gli altri è preceduta dall’incontro fra te e Dio. La preghiera serve anzitutto a me stesso: se non sono, prima di tutto, io stesso irrobustito dalla preghiera, cioè consapevole della propria precarietà e dipendenza dall’aiuto di Dio, non sarò nelle condizioni di intercedere per nessuno.

Le condizioni di intercedere per gli altri sono due, la prima: la libertà. Devo prima essere liberato dai miei idoli e dai miei interessi di parte, altrimenti me li ritrovo dopo nei miei interventi d’assistenza sotto la bandiera dell’altruismo. E la seconda è: l’umanità. Devo prima diventare umano, senza alcuna ambizione di dimostrare una presunta qualità divina. Ciò che mi rende umano è la preghiera con la quale riconosco che un Altro è Dio. Invocando il Tu di Dio divento un uomo libero, una donna libera, senza dipendenze, manipolazioni né complicità.

Anche la lettura biblica richiede anzitutto un momento intimo, personale, egocentrico: la parola di Dio è anzitutto rivolta a me e non agli altri, peccatore sono anzitutto io, e non sempre e subito gli altri, allora anche la grazia vale in primis per me. «Sta scritto di me nel rotolo del libro», dice il Salmo 40 (v. 7). Non posso delegare nessuna delle parole della Bibbia ad altri. Trasmetto questa parola solo in quanto ci sono passato prima io stesso. Solo così l’annuncio è autentico. Un annuncio che non parla più di me stesso, perché me ne ha liberato.

Lo stesso Gesù, prima di chiamare i discepoli, prima di creare comunione, era da solo nel deserto. E solo alla fine, dopo aver resistito alle tre tentazioni diaboliche «ecco degli angeli si avvicinavano a lui e lo servivano» (cfr. Matteo 4, 11).

Io e Dio, tu e Dio, nella solitudine, precede e rende autentica ogni comunione di uomini e donne liberi, indipendenti, disponibili e amichevoli, senza paternalismi e false ambizioni di essere santi eroi. Questa relazione con Dio va coltivata e consolidata per imparare a stare sulle proprie gambe.

Abbiamo sempre predicato: «dobbiamo uscire dalle nostre quattro mura!» E sarà stato giusto così, considerando l’individualismo sfrenato che disgrega le comunioni umane. Infatti, Dietrich Bonhoeffer e i suoi discepoli italiani del dopoguerra ci avevano lasciato in eredità l’inconfutabile affermazione che la chiesa deve spendersi per gli altri. Al Sinodo straordinario del 2002, convocato per la crisi degli ospedali valdesi, Giorgio Tourn invitò a prendere coscienza della spelonca di Elia: «Che fai qui, Elia?» (cfr. I Re 19), e Paolo Ricca propose «un tempo congruo di silenzio davanti a Dio» (cfr. Salmo 37, 7). Ma non siamo riusciti a farlo. L’interrogativo di Tourn rispetto alla consistenza oggi della parola guida di Bonhoeffer della chiesa per gli altri, a suo tempo, è rimasto senza risposta e senza alcun dibattito.

Non rimpiangiamo protestantesimi di altri tempi. Ma ora siamo nelle nostre camerette, nel deserto, e abbiamo paura della solitudine. E, peggio ancora, siamo costretti a lasciar soffrire e morire i nostri cari da soli. E non siamo preparati.

«Ci sono momenti nella vita che ti fanno capire che tutto quello che hai fatto prima non era altro che la preparazione a questi momenti» ci insegna Tolstoj, commentando il primo incontro tra il marito e l’amante di fronte al letto di Anna Karenina in fin di vita. Non siamo preparati. Abbiamo bisogno di una fede personale forte, di una pietas, di un profondo e marcato profilo spirituale, di una Libertà del cristiano interiorizzata, di una fede evangelica adulta che non si nasconde dietro la chiesa, che non si nasconde dietro una bandiera, tantomeno dietro una bandiera-chiesa o una chiesa-bandiera, e non si conformi a una cultura imbevuta di collettivismo gregario dietro il quale si nascondono milioni di individualisti con le loro manipolazioni e interessi di parte.

Durante un seminario di Pastorale clinica qualcuno riferiva di una visita a una persona in fin di vita che il pastore cercava di consolare: «siamo tutti vicini»; un mio collega commentò: «questa persona chiede di Dio, e tu gli rispondi la chiesa?» Aggiungo: questa persona chiede di Cristo, e tu le parli dei cristiani?

I cristiani, la chiesa, i nostri cari, ci consolano, ci accompagnano, fino a un certo punto. E non oltre. L’ultimo pezzo lo dobbiamo percorrere da soli. Prepariamoci. Non solo al nostro volere e dovere accompagnare e consolare. Ma anche allo stare da soli. In silenzio davanti a Dio. Perché Dio è anche là dove non c’è nessun essere umano e nessuna chiesa. Dio è là dov’è Cristo, e Cristo è presente nel deserto, nell’abbandono, nella solitudine, persino nel soggiorno dei morti. Non credo nella preghiera di Teresa d’Avila: «Dio non ha altre mani in questo mondo tranne le nostre». Sarebbe una mano troppo corta, anche se riuscissimo a unire le mani dell’intera umanità. Credo che le mani di Dio sono quelle di Cristo, nelle quali si uniscono anche le nostre, ma solo fino a un certo punto. Che è Getsemani. La solitudine iniziale delle tentazioni nel deserto corrisponde a quella finale a Getsemani. Fin lì, e non oltre. Solo Gesù è andato oltre, da solo. Egli è presente anche là dove noi non possiamo che mancare.

Confidando in Gesù Cristo, possiamo affidare i nostri cari che non abbiamo più potuto assistere né accompagnare all’ultima dimora, all’amore di Dio.

di Winfrid Pfannkuche | Riforma.it

Ti è piaciuto l'articolo? Sostienici con un "Mi Piace" qui sotto nella nostra pagina Facebook