Uomo di Dio, investi coraggiosamente la tua esistenza per il progresso del Regno!

“Avere talento è avere fede in se stessi e nelle proprie forze” è un aforisma tratto dal dramma teatrale “I Bassifondi o l’albergo dei poveri”, redatto dallo scrittore russo Maksim Gorkij (1868-1936). Esso narra la storia degradante di un gruppo di emarginati (una prostituta, un attore alcolizzato, un nobile decaduto, un gruppo di disoccupati), che vive in un misero dormitorio pubblico collocato in fondo ad una discarica e gestito da un vecchio cinico usuraio e dalla sua amante. In questo infernale tugurio soggiorna un pellegrino-filosofo, il quale riesce a far sperare quest’umanità decaduta. Il talento che è nell’uomo, in ogni uomo, ha bisogno di essere curato, anche se si vivono esperienze umilianti e miserevoli.

Anche Gesù parlò del talento, nella famosa parabola dei Talenti, riportata nell’Evangelo di Matteo (cfr. Lc.19:12-27). Essa è inserita in una poderosa predicazione dell’avvento della Società di Dio: è una parabola del Regno che viene(il Ritorno di Gesù). Legata alla precedente parabola delle Dieci Vergini, e in particolar modo, all’invito alla vigilanza del versetto del versetto 13, essa può essere suddivisa in tre parti: un uomo ricco, verosimilmente un mercante, affida tutti i suoi beni a tre dei suoi servi prima di intraprendere un lungo viaggio (vv.14-15), il comportamento dei servi (vv.16-18), il ritorno del mercante e la richiesta del rendiconto (19-30).  Il linguaggio è arricchito di termini bancari (banchiere, interessi, investimento, guadagno, denaro, rendiconto).  Certamente Gesù non indossa i panni di un istruttore di promotori finanziari, ma com’è suo solito fare, vuole “celare” una verità evangelica dietro a un racconto di vita popolare che gli uditori ben conoscono. Che cosa vuole Gesù comunicare ai suoi uditori? La parola  chiave è investire. A chi crede, è donato un tesoro spirituale immarcescibile, la Parola, la predicazione, i doni dello Spirito. Esso non può essere tenuto nascosto, deve portare frutto. Un’altra espressione di rilievo, che riceve coloritura dalla precedente parola, è “essere pronti”: Il Regno sta per venire e i suoi discepoli non devono attendere, avendo lo sguardo fisso verso l’alto in una mistica contemplazione del mistero della venuta gloriosa di Gesù. La parabola dei Talenti induce l’uditore/lettore che si pone alla sequela di Gesù ad avere un comportamento più dinamico e creativo. Avendo messo in risalto a nostro avviso la fraseologia esplicativa della parabola (essere pronti, investendo l’intera esistenza per il Regno arricchita dai doni dello Spirito di Dio), cercheremo di sviscerare la parabola nelle sue parti salienti.  Gesù parla di Talenti. Il Talento era nell’Antica Grecia un’unità di misura di peso e monetaria e il suo valore variava secondo i luoghi e i tempi. Pressapoco, un talento valeva 6000 denari, si può dire la paga trentennale di un lavoratore (cfr. Mt. 20:2). Un’ingente somma. Dunque, nella nostra parabola il ricco commerciante affida una considerevole fortuna ai suoi servi (la parola greca è doulos, che significa schiavo) Il Signore prendendo a prestito dal linguaggio bancario la parola “talento”, le ha dato un nuovo, originale significato attuale di persone dalle particolari doti o capacità naturali. Ma nella parabola l’affidamento diversificato dei talenti ai servi (al primo servo sono consegnati  cinque talenti, al secondo due, al terzo uno solo) aveva il significato di doni specifici elargiti a coloro che si sono messi alla sua sequela, vale a dire al discepolo, come Uomo Nuovo: sono i doni dello Spirito, la Sua parola predicata e vissuta. Il racconto della parabola dei talenti affidati assume il significato dell’investimento fruttuoso del dono dell’amministrazione sapiente, sagace, spericolata della predicazione dell’Evangelo pur nella diversità dei compiti affidati ai suoi araldi (i servi a cui vengono affidati i talenti). La Chiesa è posta di fronte alla sua responsabilità che le è stata data nel mondo.  Procedendo, notiamo che due dei tre servi adempiono brillantemente al loro compito, incassando un lodevole encomio (…”Va bene servo buono e fedele in poca cosa, ti costituirò sopra molte cose; entra nella gioia del Signore”), mentre il terzo è biasimato per la sua incomprensibile prudenza e severamente punito.

A questo punto bisogna porsi alcune domande: di chi sta parlando Gesù? Quale tipo di seguace rappresentano i tre servi?

E’ stato detto da alcuni esegeti che la parabola dei Talenti nella sua stesura finale, così come si legge oggi, è il risultato di un’elaborazione tardiva e allegorizzazione di un racconto parabolico più povero narrato da Gesù: i servi sarebbero i capi religiosi, i dottori della legge. A loro è stata data la parola di Dio. Essi sono chiamati a dare un rendiconto di come hanno amministrato la volontà di Dio.

Altri esegeti affermano che la parabola dei Talenti è il dono del Regno, che va investito “senza alcun impegno umano: il problema non è quello del rendimento conseguito dall’uomo: lui non deve tradurre il Regno nella prassi, quello che deve fare è solo investirlo: e sarà poi il Regno stesso a produrre profitto”.

Noi vogliamo attenerci al testo che è stato trasmesso senza sminuire l’importanza del loro lavoro esegetico. Consideriamo che per comprendere la parabola dei Talenti bisogna partire dall’attuale versione, che include anche le intuizioni degli esegeti che si avventurano a ricostruire le parole originarie del Gesù storico. Fermo restando che la parabola può avere anche il senso di una parabola del Regno, essa va letta alla luce della sua definitiva affermazione.  La predicazione del Regno è consegnata alla chiesa, i cui membri hanno responsabilità diversificate. I doni elargiti dallo Spirito sono un investimento d’inestimabile valore. Non si può rimanere con le mani nelle mani, inoperosi, cauti, paurosi, non all’altezza dei compiti affidati. A ogni discepolo di Gesù è data una o più mansioni. Egli ha la responsabilità di sapere gestire (la parola greca è dunamis, ossia potenza) adeguatamente i doni del Regno: la sua responsabilità oltre ad essere etica (tutto l’insegnamento di Gesù è realizzabile qui e ora) , è anche amministrativa: ognuno contribuisce in misura del dono spirituale che gli è stato assegnato a costruire il Regno dei Cieli nel Regno intramondano. Se la parabola dà più risalto in maniera drammatica al comportamento “ozioso” del terzo servo (vv.24.28), ciò sta a significare come l’amore di Dio cerca di spronare colui il quale si è avvicinato al Regno più per avere una comprensione fatalistica della vita (la cosiddetta polizza vitae: credere equivale a mettersi al sicuro dopo la morte), per una stimolante attrattiva intellettuale dell’evangelo con la sua conseguente speculazione filosofico-religiosa. Quindi, la parabola dei Talenti è anche la parabola della revisione del rapporto del discepolo con il Signore: la parusia minaccia il discepolo “ozioso” ossia, colui che vive al sicuro dentro le regole legalistiche di un sistema ecclesiale, colui che ha costruito un rapporto fittizio con il Signore, fatto di osservanze rituali, formali, esteriori, non investendo, non osando, non mettendo in discussione se stesso, rimanendo fermo nella posizione iniziale della sua artefatta avventura cristiana. E’ il discepolo che non vuole essere cambiato e non ha la potenza-capacità di costruire il Regno di Dio presente nella storia umana. Se la chiesa è formata solo da questo tipo di discepolo, la chiesa smette di essere attrattiva e accattivante, ed essa viene respinta dai Cittadini del Secolo. Siffatti discepoli non possono permettersi di sprecare il dono di grazia di Dio. Questo è il tempo in cui la comunità sta al servizio di Gesù e i suoi discepoli sono chiamati a investire coraggiosamente e potentemente la propria esistenza arricchita dai doni dell’evangelo.

“….. Vi esorto, dunque, Fratelli, per la misericordia di Dio a presentare i vostri corpi in sacrificio vivente, santo, gradito a Dio: questo è il vostro culto spirituale. Non conformatevi a questo mondo, ma siate trasformati mediante il rinnovamento della vostra mente, affinché conosciate per esperienza quale sia la volontà di Dio, la buona, gradita e perfetta volontà.”. (Rom.12:1-2)

Paolo Brancé | Notiziecristiane.com

Ti è piaciuto l'articolo? Sostienici con un "Mi Piace" qui sotto nella nostra pagina Facebook